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Come si aggira uno stop: sui social è vietata la pubblicità alle armi, ma ci pensano gli influencer

05 Luglio 2019 - 06:48 Emma Bubola
Non vedrete mai inserzioni di fucili, munizioni, alcuni tipi di integratori o prodotti dimagranti su Instagram. Ma potete trovarli vivamente consigliati dai vostri influencer preferiti

Giulia Taboga lavora a tempo pieno come influencer. Partecipa a eventi e indossa pubblicamente accessori che portano il marchio dei suoi datori di lavoro. Come ormai la maggior parte dei suoi colleghi, lavora però soprattutto su Instagram che rappresenta il 70% dei suoi guadagni annuali.

Il suo è un settore molto specifico: sul profilo Instagram pubblica foto di paesaggi montuosi, cani da caccia, fucili e munizioni. Come la ragazza spiega a Open, i suoi follower sono appassionati di sport e i suoi sponsor sono perlopiù brand che producono proiettili e armi da fuoco. 

I contenuti sponsorizzati vietati da Facebook

Stando a quanto stabilito dalle linee guida di Facebook infatti, alla maggior parte dei brand che Taboga sponsorizza viene negata l’opportunità di farsi pubblicità pubblicando inserzioni sui social media di Mark Zuckerberg. Senza lei e le sue colleghe, queste aziende perderebbero l’opportunità di sponsorizzarsi sulle piattaforme. 

Le restrizioni non riguardano solo il settore delle armi: coinvolgono, oltre a chi vende droghe o parti del corpo, anche chi distribuisce «integratori di dubbia sicurezza» o prodotti dimagranti. Facebook non consente per esempio la sponsorizzazione di prodotti a base di creatina, derivato aminoacidico utilizzato dagli sportivi per aumentare il volume muscolare. Ma non impedisce a una campionessa di Crossfit, di condividere con i suoi 60.000 follower un’immagine in cui suggerisce l’utilizzo del prodotto. 

Il limite dei 18 anni vale solo per le inserzioni

Su Facebook, le inserzioni che promuovono prodotti dietetici «accettabili» e integratori a base di erbe devono essere destinati a persone di almeno 18 anni. Ma gli influencer non sono sottoposti a questo vincolo e molti di loro hanno un seguito molto giovane. Recentemente, l’influencer Ramona Amodeo, che tra i vari brand sponsorizza anche FitVia, marca di prodotti dietetici, ha consigliato su Instagram a una dodicenne di utilizzare una tisana detox, scatenando un’accesa polemica. 

Se da un lato il social network di Mark Zuckerberg riesce ad avere un controllo sugli inserzionisti, questo non avviene quando si tratta dei semplici post degli utenti. Quando un brand propone un’inserzione, questa viene analizzata prima di essere approvata: viene valutato l’annuncio in sé, la pagina a cui rimanda e i link a siti esterni. Questo non avviene per i post degli influencer. Post che però, secondo il numero di follower dell’autore, possono avere una diffusione ancora maggiore delle inserzioni pubblicitarie.

La spiegazione fornita da Facebook a Open è che rispetto ai post degli utenti, visualizzati solo da chi decide di seguirli, gli annunci vengono distribuiti «proattivamente» agli utenti. Per questo sono regolati da criteri più rigorosi, «per garantire che gli annunci non vengano mostrati a persone che potrebbero non volerli vedere».

Il caso delle armi da fuoco

In un’intervista al giornale americano Vox, Kyle Clouse, direttore marketing della ditta americana che produce cassaforti per pistole Liberty Safe, ha definito le influencer «galline dalle uova d’oro».

Mara Lanfranchi, responsabile marketing di Fiocchi munizioni, ha spiegato a Open che «negli ultimi anni abbiamo iniziato a puntare molto sui social e sui brand ambassador» e sempre meno su newsletter e riviste di settore. I loro ambassador, principalmente atleti di livello internazionale, olimpionici e non, vengono contrattualizzati, spiega Lanfranchi, e il brand fornisce loro del materiale omaggio per allenamenti e gare. Oggetti che poi i giovani fotografano e condividono su Instagram. «Purtroppo i nostri ragazzi sono famosi solo in una cerchia ristretta nel nostro settore», aggiunge Lanfranchi.

In Italia, spiega, chi pubblicizza fucili e munizioni ha infatti un pubblico principalmente venatorio o appassionato di sport. Numericamente inferiore quindi a quello di influencer standard, ma altamente fidelizzato. Altrove nel mondo, le influencer di armi da fuoco sono invece più spesso semplicemente belle ragazze appassionate di caccia senza particolari titoli sportivi ma capaci, su Instagram, di rendere lo stile di vita legato a fucili e munizioni particolarmente attrattivo.

Aggirando le restrizioni imposte da Instagram e Facebook per quanto riguarda le inserzioni, marchi, messi al bando dalle sponsorizzazioni, esistono sui due social media grazie ai loro brand ambassador. «Su Facebook e Instagram, le influencer sono l’unico modo che le compagnie di armi da fuoco hanno per crescere» ha confidato a Vox, Dee Anna Waddell, di Gunship Helicopters

Ragazze che si mostrano armate su Facebook e Instagram non infrangono, di per sé, gli Standard della Comunità. Facebook ha infatti scelto di non mettere al bando qualsiasi contenuto raffiguri armi da fuoco. Questo divieto infrangerebbe il loro obiettivo di incoraggiare l’espressione personale censurando immagini innocue come quelle di persone che cacciano o addirittura contenuti fotogiornalistici in cui appaiono pistole.

Gli stessi standard vietano però, spiega un portavoce Facebook, «gli annunci e i contenuti che promuovono la vendita o l’uso di armi o munizioni». Ringraziare il proprio sponsor su Instagram significa pubblicizzarlo? La domanda chiama inevitabilmente in causa la questione spinosa della definizione di influencer e del confine tra role model e strumento di marketing.

Pubblicità trasparente? 

Secondo Salvatore Pastorello, dell’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria (IAP), qualsiasi post promuova un prodotto, su dono o retribuzione, è da considerarsi pubblicitario. «I post degli influencer non necessariamente appaiono come inserzioni», spiega l’esperto a Open, «ma anche quando non lo fanno dovrebbero essere ritenuti contenuti commerciali».

Se il prodotto sponsorizzato è stato regalato all’influencer da un brand o se un utente viene pagato per promuoverlo sui social, il post in questione dovrebbe pertanto contenere un riferimento esplicito alla natura della pubblicazione, spiega Pastorello, citando la Digital Chart redatta dall’IAP.

Questo può essere effettuato tramite l’hashtag #advertisement o #adv o tramite alcuni strumenti che Instagram o Facebook mettono a disposizione di profili molto seguiti, che segnalano il contenuto sponsorizzato facendo apparire una barra colorata in testa al post. Pertanto, il meccanismo di enforcement non è uniforme, trattandosi di un codice di autodisciplina cui l’adesione è volontaria.

Nei casi più eclatanti interviene l’autorità garante della Concorrenza e del mercato, che si rifà a quanto il codice del Consumatore stabilisce riguardo la pubblicità non trasparente. Come nel caso delle felpe Alitalia ricamate da Alberta Ferretti, in cui è intervenuta l’Antitrust. Questo avviene però nella maggior parte dei casi dietro sollecitazione e riguarda casi eclatanti, come quando Belen Rodriguez è stata richiamata perché pubblicizzava senza dichiararlo prodotti FitVia.

La strategia principale dell’autorità garante è stata per ora la moral suasion, spiega a Open un portavoce, che ha dato buoni risultati, «sono fenomeni nuovi e in evoluzione, potremmo imporre sanzioni amministrative ma per ora preferiamo dare delle linee guida comportamentali e siamo rimasti soddisfatti». Secondo Ilaria Barbotti, la cui agenzia Digital PR Atelier si occupa di marketing su Instagram, dopo la pubblicazione della Digital Chart nel 2016 è scoppiata una sorta di «moda» in cui l’utilizzo dell’hashtag #adv era quasi un vanto. In pochi mesi però, l’uso dell’hashtag è in gran parte caduto in disuso. Ragazze come Taboga non inseriscono l’hashtag #adv («non mi risulta che sia obbligatorio qui in Italia») ma non dimenticano mai di taggare il brand che ha fornito loro l’arma fotografata. 

Come Cambridge Analytica, come le interferenze russe nella campagna presidenziale del 2016 negli Stati Uniti, come la diffusione di bufale e di discorsi di incitamento all’odio. Il fatto che dodicenni di tutto il mondo vedano le loro eroine sponsorizzare prodotti dietetici o che gli adolescenti americani scorrendo Instagram si imbattano in pistole affiancate a ragazze in biancheria intima fa paura a chi vede Facebook come uno strumento potente e fuori controllo. E aumenta progressivamente la credibilità della tesi scandita da Guy Verhofstadt al Parlamento Europeo, cioè che Zuckerberg «abbia perso il controllo di Facebook». 

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