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Come andammo sulla Luna 50 anni fa: dietro Apollo 11 anni di studi e sacrifici

20 Luglio 2019 - 07:15 Juanne Pili
Il 21 luglio di 50 anni fa due uomini camminarono per la prima volta nella Storia su un altro Mondo

Quel piccolo passo sulla regolite che copre la superficie lunare, che Neil Armstrong ha definito «un balzo gigante per l’umanità» sembra ormai lontano secoli. Invece da quel 21 luglio 1969 sono passati appena 50 anni.

Dopo di lui Buzz Aldrin, soprannominato Dottor rendezvous, per la sua conoscenza approfondita della tecnica che permetteva di raggiungere nello Spazio due veicoli lanciati separatamente.

Una tecnica fondamentale messa a punto dalla Nasa, senza la quale Michael Collins, rimasto ad attenderli sull’orbita lunare, non avrebbe potuto riportare i suoi compagni a casa.

La corsa allo Spazio

Sono questi tre colleghi, amici e persino vicini di casa durante il periodo delle missioni Apollo, i primi a piantare una bandiera americana sulla Luna.

Sì, perché tutti gli astronauti del progetto vennero fatti trasferire assieme alle famiglie in abitazioni vicine tra loro, vivendo insieme le glorie ma anche le tragedie che questo genere di avventure comporta.

Ma nel badge che simboleggia la missione Apollo 11 non compaiono i loro nomi, per sottolineare l’importanza dello sforzo compiuto da tecnici, scienziati e altri astronauti prima di loro, senza i quali avrebbero potuto fare ben poco.

Credit: NASA/Il controllo di missione durante Apollo 11. Sono riconoscibili da sinistra a destra Charlie Duke (Apollo 16) e Jim Lovell (Apollo 8 e 13)

Quando nel 1957 l’Unione sovietica lanciò nello spazio il primo satellite artificiale Sputnik 1 per gli americani fu un trauma. Solo tre anni dopo Jurij Gagarin sarà il primo uomo a viaggiare in orbita attorno alla Terra.

La superiorità sovietica nello Spazio aveva delle implicazioni terribili in piena Guerra fredda: degli oggetti inviati da una potenza nemica passavano indisturbati sopra gli Stati Uniti. Bisognava fare qualcosa. Fu così che il primo ottobre 1958 fu creata su richiesta del presidente Dwight Eisenhower l’Agenzia spaziale americana (Nasa).

Con l’aiuto di Wernher von Braun (uno dei tanti scienziati nazisti che si spartirono Stati Uniti  e Unione Sovietica dopo la Seconda guerra mondiale), si tentò di compensare la distanza tecnologica rispetto ai rivali, con i lanci dei primi satelliti Vanguard ed Explorer, mentre da tutta la nazione vennero selezionati piloti e ingegneri collaudatori per sperimentare i velivoli X-15: tra questi c’era anche Neil Armstrong e altri futuri astronauti.

Così dalla tecnologia nazista dei razzi V2, concepiti da von Braun e altri colleghi per bombardare a distanza le città nemiche – soprattutto Londra – si arrivò alle basi fondamentali per i voli spaziali. 

Con l’aereo ipersonico a propulsione X-15 Nasa e Usaf (Aeronautica militare americana) cominciarono a raggiungere i confini tra cielo e Spazio, sperimentando gli effetti sui piloti e addestrandoli per farli diventare i primi astronauti della Nasa e delle missioni che porteranno alcuni di loro sulla Luna, nel giro di appena 10 anni.

NASA/USAF/L’aereo ipersonico X-15 con cui vennero selezionati i primi astronauti della Nasa

Finché si cercava di eguagliare i sovietici era praticamente impossibile raggiungerli. L’Agenzia spaziale malgrado i progressi acquisiti coi primi lanci delle missioni Mercury (dal 1958 al 1963) continuava a mangiare la polvere.

Bisognava spostare l’asticella della sfida fino a un punto in cui anche i sovietici avrebbero dovuto trovarsi al punto di partenza. Fu così che nel 1962 il presidente J. F. Kennedy pronunciò un discorso che spiazzò tutti, compresi i dirigenti della Nasa.

Kennedy si convinse che entro dieci anni dal momento in cui pronunciava il suo discorso, gli americani avrebbero portato un equipaggio sulla Luna, riportandolo sulla Terra sano e salvo. E da quel momento gli americani avrebbero fatto altre cose straordinarie, «non perché sono facili ma perché sono difficili».

Fino a quel discorso la Nasa era riuscita con le missioni Mercury a totalizzare qualche decina di minuti nello Spazio, ora il presidente sosteneva che avrebbero mandato astronauti sulla Luna entro la fine degli anni ’60.

Fu così che venne data una grossa spinta al progetto Gemini (dal 1961 al 1966), con cui vennero sperimentate permanenze più lunghe in orbita e diverse manovre che saranno fondamentali per le missioni Apollo. Contemporaneamente si cominciava a studiare la costruzione dei primi razzi Saturn V.

Saturn V: il razzo delle missioni Apollo

Il Saturn V è stato il razzo più potente mai costruito, concepito appositamente per il programma Apollo. Alto 111 metri e pesante 2,8 milioni di chilogrammi, venne costruito presso il Marshall Space Flight Center della Nasa nei suoi tre stadi principali.

In principio von Braun aveva concepito un razzo ancora più grande, compreso il modulo di allunaggio, mentre prevalse alla fine l’idea di dividere il mezzo in razzi intermedi.

Il primo stadio era costituito da cinque motori in grado di consumare fino a 13 tonnellate di cherosene e ossigeno liquido al secondo, avrebbe dato la spinta iniziale verso i confini dell’atmosfera fino a 70 chilometri di quota. A quel punto finito il carburante, veniva espulso e si accendevano i motori del secondo stadio.

Il terzo stadio trasportava il modulo lunare (Lem), quello di servizio che avrebbe riportato gli astronauti a casa e quello di comando: una capsula che sarebbe stata anche l’unico piccolissimo pezzo del Saturn V a far ritorno sulla Terra. In questo modo si poteva progressivamente accelerare riducendo man mano il peso, ottimizzando il carburante, costituito da combustibili liquidi che dovevano essere tenuti a bassissime temperature. 

Il Saturn V rischiò di far sospendere l’intero programma fin dalla prima missione, che di fatto non avvenne mai: quella dell’ Apollo 1. Durante un test nel modulo di comando gli astronauti Grissom, White e Chaffee morirono carbonizzati in pochi secondi a seguito di un incendio che divampò a causa di una scintilla, velocemente, visto che per farli respirare veniva immesso nell’abitacolo ossigeno puro. Un errore che non venne più commesso.

Il Saturn V venne lanciato per la prima volta completo di tutti i suoi stadi nel novembre 1967, con la missione non umana Apollo 4 (appena due anni prima di Apollo 11). Con l’ultimo test non umano dell’Apollo 6 venne studiato un altro problema che avrebbe potuto compromettere le missioni umane, uccidendo gli equipaggi: il cosiddetto “Effetto pogo”.

A causa di sbalzi nell’erogazione del propellente ai motori, poteva generarsi una oscillazione eccessiva del razzo. L’Effetto pogo venne poi risolto applicando degli appositi ammortizzatori meccanici. Per il resto nelle giunture tra uno stadio e l’altro erano presenti vari sensori e giroscopi in grado di tenere stabile il Saturn V, attraverso piccole correzioni di rotta.

Nell’ottobre 1968 con Apollo 7 ricominciano le missioni umane. L’equipaggio era formato da Eisele, Schirra e Cunningham. Sperimenteranno in orbita terrestre le operazioni di rendezvous e docking del Lem, ovvero il suo aggancio al modulo di comando.

Nel dicembre dello stesso anno avvenne un’altra tappa fondamentale: la missione Apollo 8 infatti è stata il primo viaggio nello Spazio profondo da parte di un equipaggio, raggiungendo la Luna. 

Gli astronauti a bordo Borman, Lovell e Anders non poterono scendere sulla superficie, ma scattarono una foto destinata a diventare storica: quella della Terra che sorge oltre l’orizzonte lunare.

NASA / Apollo 8/Earth rising, la Terra che sorge dalla superficie lunare

Le ragioni di tutte queste tappe intermedie, nonostante la fretta di superare i sovietici, stava anche nel fatto che dopo la tragedia di Apollo 1 si doveva testare ogni tappa del viaggio, raccogliendo più informazioni possibili su altri eventuali imprevisti.

Per questo le missioni intermedie Apollo 9 e 10 dovettero limitarsi a testare il Lem, rispettivamente in volo nell’orbita terrestre e in quella lunare. In quest’ultimo caso venne ridotto il combustibile agli astronauti, prevenendo che all’ultimo momento decidessero di disobbedire agli ordini tentando l’allunaggio.

Il Saturn V raggiunse nuovamente la Luna nelle sei missioni successive, da Apollo 11 al 17. Fatta eccezione per Apollo 13 che ebbe un incidente durante il viaggio, tutte vennero condotte con successo.

Nessuna fu uguale all’altra, ogni volta vennero apportate modifiche e aggiunti elementi, come l’introduzione del rover, con cui gli astronauti poterono ampliare le loro esplorazioni. Dopo Apollo 17 il programma venne sospeso per mancanza di budget, nonostante fossero previste altre tre missioni.

Gli ultimi Saturn V vennero impiegati per il lancio della prima Stazione spaziale americana Skylab (1973) e nella missione congiunta coi sovietici Apollo-Soyuz (1975).

Credit: NASA/I tre stadi del razzo Saturn V. L’ultima parte conteneva il modulo lunare, quello di servizio e di comando.

Il viaggio di andata

Il 16 luglio 1969 Armstrong, Aldrin e Collins partirono col Saturn V dalla rampa 39A del Kennedy Space Center, dando il via alla missione Apollo 11. Dopo essersi separata dai primi due stadi la missione entra in orbita.

Nelle prime ore del 17 luglio il modulo di comando e quello di servizio – che servirà per compiere il resto del viaggio – ruotano in modo da poter agganciare ed estrarre il Lem, che si trova alla base del terzo stadio. Tutto è pronto per dare una nuova spinta dei motori verso la Luna.

Il 20 luglio Apollo 11 entra nell’orbita lunare. In quattro giorni venne coperta la distanza di 393.417 chilometri. A questo punto Armstrong e Aldrin si trasferiscono nel modulo lunare, mentre Collins resterà ad attenderli in orbita.

Sono le 19:44 in Italia quando il Lem comincia la sua discesa verso la superficie lunare. Per diversi momenti dalla Terra si teme il peggio. Armstrong che pilota il mezzo vede passare sotto di lui punti geografici in largo anticipo rispetto al previsto, indice del fatto che si stanno muovendo troppo velocemente.

A un certo punto dal display del computer di bordo compaiono dei codici di errore che fortunatamente vengono decodificati in pochi secondi dal controllo missione: si trattava di un sovraccarico di dati: fu sufficiente riavviarlo per non avere più problemi.

Il tempo stringe e il carburante sta per finire. Armstrong vede sotto di sé fino all’ultimo un terreno aspro non adatto all’allunaggio, finché finalmente trova un punto ideale. Sotto le gambe del Lem ci sono dei cavi che quando entrano a contatto con la superficie danno il segnale per spegnere i motori.

Per questo motivo a un certo punto Aldrin comunica al Controllo missione «luci di contatto», ma i motori non vengono ancora spenti, cosa che si temeva avrebbe potuto causare una esplosione. Per fortuna tutto andò per il meglio.

OPEN/Vincenzo Monaco/Apollo 11: il viaggio verso la Luna
1. Lancio dalla rampa 39A
2. Separazione del primo stadio
3. Separazione del secondo stadio
4. Il terzo stadio entra in orbita
5. Il modulo di comando ruota di 180° per effettuare il docking col Lem
6. Separazione del Lem
7. Allunaggio

Il viaggio di ritorno

Armstrong battezza il sito dell’allunaggio «Base della tranquillità». In Italia sono le 22:17, i giornalisti Tito Stagno e Ruggero Orlando polemizzano sul momento esatto in cui il Lem «ha toccato».

Dopo essersi riposati per sei ore, gli astronauti sono pronti a uscire dal Lem nelle prime ore del 21 luglio. Il primo come noto sarà Armstrong in qualità di comandante della missione, pronunciando, quando tocca per la prima volta il suolo, la storica frase:

«Un piccolo passo per un uomo, un balzo gigante per l’umanità».

Forse non tutti sanno che le immagini più iconiche del “primo uomo sulla Luna” non sono di Armstrong ma del secondo a mettervi piede, Aldrin. Di Armstrong abbiamo solo una foto di spalle.

Dopo aver piantato la bandiera americana e raccolto alcuni campioni gli astronauti tornano a bordo del Lem, dove devono fare i conti con la regolite che aderisce per elettrostatica alle tute. Si teme soprattutto che un brusco contatto con l’ossigeno la renda infiammabile.

NASA/Apollo 11/Neil Armstrong appena rientrato sul Lem dopo l’escursione lunare. L’immagine venne scattata da Buzz Aldrin. In quegli occhi si vede tutta la fatica del viaggio.

Così Armstrong e Aldrin fanno entrare l’ossigeno nel loro abitacolo con molta prudenza, constatando che non vi fosse pericolo. Purtroppo però li attendeva ancora una brutta sorpresa. La levetta che doveva innescare la reazione che avrebbe spinto la parte superiore del Lem nello Spazio si era rotta.

Aldrin porta ancora con se nei convegni la penna che salvò la vita a lui e al suo collega. Con essa infatti riuscirono ad azionare il meccanismo per avviare la propulsione del Lem, che si separò dalla base. In realtà ogni procedura della missione aveva più di un “piano B”.

Nel caso non avesse funzionato il comando, Armstrong avrebbe ricevuto istruzioni per attivarlo scendendo dal Lem e maneggiando da fuori alcuni sistemi. Ma non sapremo mai se quel piano di riserva avrebbe funzionato.

Tornati in orbita attorno alla Luna gli astronauti si riagganciarono al modulo di comando dove li attendeva Collins. Questa manovra non avveniva per la prima volta, fu affinata – come abbiamo già visto – durante le missioni Apollo 7, 9 e 10, solo quella precedente però venne sperimentata in orbita lunare.

OPEN/Vincenzo Monaco/Apollo 11: Il ritorno verso la Terra
1. Allunaggio nella «Base della tranquillità»
2. L’ultima parte del Lem si separa dalla base
3. Docking tra quel che resta del Lem e il modulo di comando
4. Armostrong e Aldrin si riuniscono a Collins. Il Lem viene sganciato
5. Si riaccendono i motori e si parte verso la Terra
6. Vengono effettuate alcune correzioni di rotta
7. Il modulo di comando si separa da quello di servizio
8. L’atmosfera frena la caduta della capsula
9. Si aprono i paracadute
10. Ammaraggio nell’Oceano Pacifico

Foto di copertina: NASA/Apollo 11/Buzz Aldrin sulla Luna/Elaborazione grafica di Vincenzo Monaco.

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