Cosa è successo a Bibbiano, terzo capitolo: come è nata l’inchiesta

Per l’accusa è evidente la sistematica produzione di relazioni false, domande suggestionanti nei colloqui, manipolazioni dei ricordi dei bambini

Il caso parte da un’intuizione della pm Valentina Salvi che si ritrova sul tavolo un elevato numero di fascicoli per presunti abusi su minori che non ci sono mai stati e tutti in una zona circoscritta, la Val d’Enza in provincia di Reggio Emilia. Da qui scattano le indagini con acquisizioni di atti e intercettazioni ambientali.


Per l’accusa è evidente la sistematica produzione di relazioni false, domande suggestionanti nei colloqui, manipolazioni dei ricordi dei bambini: un vero e proprio lavaggio del cervello con l’imposizione di cancellare dalla memoria i genitori che faceva dei bambini delle prede più semplici da sottrarre alle famiglie.


I bimbi venivano poi collocati in affido retribuito presso amici, conoscenti e in un caso anche ad una donna con la quale la dirigente Federica Anghindolfi, al centro dell’indagine, aveva avuto una relazione sentimentale verificata dagli inquirenti.

La donna si chiama Fadia Bassmaji, anch’essa indagata, alla quale è stata data in affido, assieme alla compagna attuale, Daniela Bedogni, una bambina. Bedogni è invece la donna che nel racconto iniziale parla con personaggi immaginari e che gli inquirenti considerano mentalmente instabile.

Negli atti d’indagine risulta che le relazioni familiari di fatto venissero interrotte senza un motivo reale. Le famiglie affidatarie che ricevevano il minore invece, in modo discrezionale e a seconda delle decisioni dei servizi sociali, venivano aiutate con un compenso mensile che andava dai 600 ai 1300 euro.

Eppure i colloqui che i terapeuti sono tenuti a intrattenere con i bambini sospettati di un abuso devono seguire protocolli molto rigidi e corredati da imparzialità, rispettando la cosiddetta Carta di Noto, una profilassi che vieta i condizionamenti finanche nel linguaggio. Ma nelle intercettazioni dell’inchiesta due degli indagati definiscono la Carta come «una roba scritta da quattro pedofili».

In una fase delle indagini sono addirittura a conoscenza di essere sotto il mirino dell’autorità giudiziaria e probabilmente intercettati. Qualcuno fa capire che vorrebbe regolarizzare la situazione. Ma forse è troppo tardi.

È «emerso da diverse dichiarazioni testimoniali e da informazioni assunte», scrivono i magistrati, che «pressoché tutti gli indagati per lesioni personali avessero avuto esperienze traumatiche nell’infanzia», simili a quelle cercate nei bambini analizzati.

Ad esempio Federica Anghinolfi, «oltre ad aver avuto un passato di dipendenza da alcol», in un’intercettazione parla di uno stupro di gruppo subito da bambina, Monopoli dice invece di «aver subito maltrattamenti da parte del padre» e così lo stesso Foti e Bolognini. Ma nel quadro generale non è facile comprendere quanto sia stato inventato, per ingannare gli inquirenti, e cosa sia vero.

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