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Studenti italiani di colpo analfabeti? La scomoda verità dietro i test Invalsi – L’intervista

25 Luglio 2019 - 06:30 OPEN
«L'italiano è una lingua che ha poche decine di anni di vita. Per trasformare un Paese di non-italofoni in un Paese di italofoni ci vuole molto tempo e ci vuole investimento», ha spiegato a Open il linguista Nicola Grandi

I risultati delle prove Invalsi ci hanno restituito la fotografia di un’Italia spaccata a metà. In quattro regioni – Campania, Calabria, Sicilia e Sardegna – il 20% degli studenti e delle studentesse non arriva a un livello di conoscenza della lingua italiana necessario alle più elementari e quotidiane operazioni.

Leggendo bene il rapporto, i dati non ci parlano di reali novità. Nicola Grandi, professore di linguistica all’Università di Bologna, ha pubblicato un articolo dal titolo No, i nostri ragazzi non stanno diventando analfabeti, nel quale ha attaccato la retorica dell’apocalisse culturale che starebbe investendo il Paese.

Ma allora perché molti giovani non sembrano possedere la grammatica? «I problemi ci sono, e sono molti», ha detto Grandi a Open. «Ma questo non vuol dire che siano nuovi, né che non ci siano stati miglioramenti. Bisogna inquadrare la questione in una prospettiva storica: l’Italia è un Paese giovanissimo, e la lingua italiana è entrata nella vita di tutti i giorni in tempi molto recenti».

Professore, stiamo diventando analfabeti?

«La questione è un po’ più complicata di come l’hanno messa giù. Se usiamo un verbo come «diventare» o «tornare», che implica una dimensione temporale, bisogna guardare le cose in prospettiva storica. In realtà non c’è mai stata un’epoca in cui ci sono stati meno analfabeti di quanti non ce ne siano oggi.

Il tasso di competenza della lingua italiana cresce lentamente ma costantemente. Per quel che riguarda le scuole secondarie non si può fare una media o confronto perché è la prima rilevazione Invalsi in assoluto. Ma se guardiamo tutte le prova per i gradi precedenti di scuola, c’è in media un miglioramento.

Il miglioramento più consistente è proprio nel Centro-Sud, mentre nel Nord pare che si sia perso qualche punto. La forbice, dunque, sembrerebbe ridursi progressivamente».

Di cosa ci parla realmente il rapporto sui risultati delle prove Invalsi?

«I dati messi così ci dicono tutto sommato poco. Se li scorporiamo, si vede chiaramente che il problema è soprattutto sulle scuole superiori. Il percorso fino alle medie è omogeneo: poi chi va a liceo ha risultati migliori in italiano di chi fa gli istituti professionali. È così da sempre. Ma pur rimanendo un risultato non eccellente la sensazione è che si stia andando verso un miglioramento.

Ma oltre al divario tra istituti professionali e licei, è anche noto che esista una Questione Meridionale. Anche in questo caso, se si leggono i dati in prospettiva storica, si capisce che è un divario che si sta riducendo. Certo, è un percorso che non procederà velocemente se non si fanno i giusti investimenti».

Lei ha parlato di risultati «parziali». Che intende?

«L’Italia è nato come paese di analfabeti, se consideriamo l’analfabetismo come incapacità di leggere e scrivere. Quando è nata l’Italia, l’italiano non esisteva perché parlavano tutti dialetto.

L’italiano è stato imposto. Ed è stata imposta una varietà di italiano letteraria, quella delle Tre Corone fiorentine (Dante, Boccaccio e Petrarca, ndr). Questo ha creato automaticamente un popolo di analfabeti. Fino agli ’60 e ’70, una percentuale schiacciante di italiani non parlava italiano.

Il grande motore dell’italianizzazione, più che la scuola, è stata la Tv. È stata la Tv a portare l’italiano nelle case dei cittadini dove prima si parlava solo dialetto. L’italiano è una lingua che ha poche decine di anni di vita. Per trasformare un Paese di non-italofoni in un Paese di italofoni ci vuole molto tempo e ci vuole investimento.

È chiaro che preso in assoluto il dato diventa sconfortante, ma se lo contestualizziamo e vediamo che siamo passati da un 80% o 90% di persone incapaci di intendere l’italiano al 75% di persone in grado di intendere l’italiano, il dato diventa più positivo».

Oggi a che punto è l’alfabetizzazione?

«Nonostante i miglioramenti, bisogna fare un discorso più generale che riguarda anche il credito sociale della scuola. Basta dare uno sguardo a chi ha successo, anche in politica: avere un grado di scolarizzazione molto alto, essere laureati, avere un dottorato, non è più un parametro significativo.

Quello che la società ci mostra ora è che non è più necessario andare a scuola o completare il proprio percorso di studi. Un Paese impone anche dei modelli culturali di riferimento, e oggi purtroppo vanno nella direzione opposta a quella di una formazione sempre più approfondita.

Bisognerebbe aumentare il credito sociale dell’insegnamento, smettere di deridere la cultura e tutto quello che ci sta attorno e gratificare economicamente chi lavora nel mondo della scuola, come gli insegnanti.

Tra l’altro, siamo in una situazione paradossale per cui per anni abbiamo avuto un popolo di cittadini che non parlavano italiano ma che erano italiani, oggi ci preoccupiamo di non dare la cittadinanza a persone nate in Italia figlie di immigrati che però parlano perfettamente italiano. Abbiamo tollerato per decenni milioni di italiani non italofoni e ora non consideriamo italiani decine di migliaia di italofoni. È una cosa un po’ assurda».

Che tipo di fotografia possono restituirci le prove Invalsi per quanto riguarda il metodo scolastico di insegnamento della lingua italiana?

«Gli Invalsi sono, specie per la maturità, domande di comprensione del testo. Però, soprattutto nella scuola dell’obbligo, l’insegnamento delle lingue è ossessivamente grammaticale. E l’apprendimento a memoria di sfilze di complementi è assolutamente inutile.

Diceva Tullio De Mauro che pensare che conoscere a memoria tutti i complementi aiuti a parlare meglio la lingua, è come pensare ce chi conosce perfettamente i muscoli della gamba corra più veloce degli altri. Non è così».

Come bisognerebbe insegnare la lingua?

«Ripartendo da come viene affrontata la grammatica. La grammatica va insegnata a partire innanzitutto dai testi, non va astratta dalla realtà della lingua. Quello che bisogna insegnare è che la lingua, come l’abbigliamento, varia. Ora io sto facendo una passeggiata in montagna in pantaloncini e maglietta. Se andassi a far lezione in questo modo, i miei studenti mi prenderebbero per pazzo. E viceversa se andassi in montagna come vado vestito in università.

E così la lingua che uso non è sbagliata di per sé. La scuola dovrebbe insegnarne la variabilità. Ai ragazzi andrebbe spiegato che lo slang dei messaggi non è sbagliato, ma che il punto è la contestualizzazione: va bene usarlo, se confinato in quell’ambito .

La soluzione migliore è investire molto sulla formazione degli insegnanti, sulla formazione permanente, e renderla obbligatoria ma anche gratificante. Non deve essere un plus rispetto al tanto che già fanno. Bisogna pensare anche a forme di esonero parziale della didattica per incentivare la formazione».

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