L’attentato in Iraq a due giorni dall’anniversario di Nassiriya: il “Ground zero” degli italiani

di Agi

Lì morirono 12 Carabinieri, 5 militari dell’Esercito, un cooperatore internazionale e un regista

L’anno è il 2003. Il giorno, il 12 novembre. L’ora le 10,40 di Nassiriya, le 8,40 da noi. L’anno, il giorno e l’ora in cui la guerra torna inaspettata nelle case degli italiani. E il nome di una città nel cuore dell’Iraq si lega per sempre alla morte di 12 Carabinieri, 5 militari dell’Esercito, un cooperatore internazionale e un regista, vittime di un attentato che uccide anche 9 iracheni e provoca 58 feriti.


Il conflitto in Iraq è ufficialmente finito da sei mesi, ma una risoluzione Onu ha invitato tutti gli Stati a contribuire alla rinascita del Paese. Il contributo italiano si concretizza a partire dal 15 luglio in Antica Babilonia, una missione di peacekeeping con molteplici obiettivi: il mantenimento dell’ordine pubblico, l’addestramento delle forze di polizia del posto, la gestione dell’aeroporto e gli aiuti da portare alla popolazione.


Il Comando dell’Italian Joint Task Force è a 7 chilometri da Nassiriya, nella base White Horse, non lontana da quella Usa di Tallil. Il Reggimento Msu/Iraq, composto da Carabinieri e polizia militare romena, occupa due postazioni: base “Maestrale” (dove è di stanza l’Unità di Manovra) e base “Libeccio”, entrambe poste al centro dell’abitato proprio per mantenere un contatto ravvicinato con la comunità locale. Sono divise da poche centinaia di metri.

Per base “Maestrale”, chiamata anche “Animal House”, già sede della Camera di Commercio ai tempi di Saddam Hussein, quel 12 novembre sembra una mattina come le altre. Almeno fino a quando sul compound piomba a tutta velocità un camion cisterna blu carico di esplosivo: dai 150 ai 300 chili di tritolo mescolati a liquido infiammabile.

Andrea Filippa, il carabiniere di guardia all’ingresso, spara e uccide due kamikaze impedendo che il camion esploda all’interno e che le proporzioni della tragedia siano ancora più grandi, ma la deflagrazione, con un terribile effetto domino, fa saltare in aria anche il deposito munizioni e le scene che si presentano agli occhi dei primi soccorritori – i Carabinieri stessi, la nuova polizia irachena e gli abitanti di Nassiriya – sono raccapriccianti.

Un inferno di polvere, fuoco e sangue. Con Filippa muoiono i colleghi Massimiliano Bruno, Giovanni Cavallaro, Giuseppe Coletta, Enzo Fregosi, Daniele Ghione, Horacio Majorana, Ivan Ghitti, Domenico Intravaia, Filippo Merlino, Alfio Ragazzi e Alfonso Trincone. Muoiono i militari dell’Esercito Massimo Ficuciello, Silvio Olla, Alessandro Carrisi, Emanuele Ferrero e Pietro Petrucci, che scortavano la troupe di Stefano Rolla e il cooperatore Marco Beci; muoiono anche Beci e Rolla, quest’ultimo impegnato con la sua troupe nelle riprese di uno sceneggiato sulla ricostruzione del Paese. Là dove c’era il parcheggio, si apre un grande cratere.

«Quel cratere è il nostro Ground Zero», commenta il giorno dopo, arrivato sul posto, l’allora ministro della Difesa, Antonio Martino. «È come se avessi perso i miei figli», confessa con un filo di voce il comandante generale dell’Arma, Guido Bellini, prima di rivendicare con orgoglio che «non uno dei nostri ha chiesto di rientrare. Anzi, abbiamo un elenco lungo così di richieste per partire».

Lo choc è grandissimo, ed è una folla immensa quella che si mette per ore in fila a piazza Venezia per rendere omaggio ai caduti nella camera ardente allestita nel Sacrario delle Bandiere del Vittoriano. I funerali di Stato vengono celebrati il 18, nella Basilica di San Paolo fuori le mura, a Roma, con la partecipazione di decine di migliaia di persone: i feretri vengono portati in chiesa scortati dai corazzieri a cavallo in un silenzio irreale. Non c’è palazzo affacciato lungo il percorso del corto funebre che non esponga almeno un tricolore.

«Un popolo in lacrime, ma dignitoso e raccolto – scrive André Glucksmann – ha compreso che i suoi Carabinieri sono stati assassinati in una terra lontana perché l’Italia ha insegnato all’Europa l’arte e la dolcezza di vivere insieme in una società ‘civile’, sfuggendo alla legge della sciabola e del ricatto terroristico».

Le ipotesi sulla matrice dell’attentato sono tante: una pista porta ad al Zarqawi e agli estremisti sunniti, un’altra a una cellula terroristica libanese vicina ad Al Qaeda ma i sospetti convergono sempre e comunque su elementi arrivati da fuori provincia di Dhi-Qar.

Si indaga anche su eventuali errori ed omissioni nella catena di comando, si cerca di capire se un allarme lanciato dai servizi fosse stato ignorato o meno, ma l’iter giudiziario si dipana per anni. L’ultima parola, per ora, è quella della Cassazione che, il 10 settembre di quest’anno, conferma la condanna per l’ex generale Bruno Stano, già assolto in sede penale ma chiamato a risarcire le famiglie della vittime della strage: da comandante della missione italiana, avrebbe sottovalutato il pericolo.

Assoluzione definitiva, invece, per il colonnello dei carabinieri Georg Di Pauli, oggi generale e all’epoca responsabile della base ‘Maestrale’: lui tentò di far salire il livello di guardia e di protezione. Restando inascoltato.

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