Se i giovani si arrendono: in 360mila non hanno cercato lavoro perché sicuri di non trovarlo

Giovani e crisi del lavoro: un rapporto a 360 gradi

Si fa presto a dire «inattivi» o «ignoranti». Si fa presto a dire che i giovani non sanno leggere, che capiscono sempre meno, che abbandonano troppo presto la scuola (l’Italia è ai primi posti in Europa per dispersione scolastica). Si fa presto a dire che l’Italia è il primo Paese per numero giovani scansafatiche che né studiano né lavorano (Neet- Neither in Employment nor in Education or Training). Si fa molto meno presto a mettere a fuoco il problema di fiducia che gli under 35 hanno nei confronti delle istituzioni e del futuro che riescono a promettergli.


Nell’ultimo rapporto diffuso dal Cnel sul mercato del lavoro e sulla contrattazione collettiva compare un elemento troppo spesso sottovalutato nell’esame della situazione occupazionale in Italia: l’indice di “scoraggiamento”.


«Nel focalizzare l’attenzione sull’ampia esclusione dal lavoro delle coorti giovanili – scrivono i ricercatori – vale la pena osservare come, oltre ai disoccupati, vada considerata anche la componente formata da giovani e giovani adulti che hanno smesso di cercare lavoro per il solo fatto di ritenere vano ogni loro tentativo. I cosiddetti “scoraggiati”».

Nel 2018, il gruppo di persone che oscilla tra i 15 e i 35 anni comprendeva oltre 360 mila giovani. Centinaia di migliaia di giovani che non lavorano né studiano né sono alla ricerca di un impiego. Che hanno smesso di cercare a causa della mancata fiducia nelle opportunità che le Istituzioni o il mercato sono in grado di offrirgli.

Il rapporto diffuso recentemente da Unicef Italia sui Neet under 20 nel nostro Paese, dal titolo Il silenzio dei Neet. Giovani in bilico tra rinuncia e desiderio, ci aveva messo davanti a un’evidenza: se in Italia siamo primi in Europa per numero di inattivi (oltre 2 milioni tra i 15 e 19 anni) e la retorica dei giovani «pantofolai» non può più reggere.

«Bisogna intervenire, perché altrimenti si finisce solo per parlare sui giornali di aziende che non trovano giovani per lavorare», aveva detto a Open il direttore Paolo Rozera. «Evidentemente c’è qualcosa che non funziona nella comunicazione di queste possibilità».

Tra disoccupazione e scoraggiamento

Oltre ai dati complessivi del 2018 riportati dal Cnel, ci sono i dati aggiornati al terzo trimestre del 2019 diffusi dall’Istat qualche giorno fa. Sul totale dei disoccupati, gli inattivi sfiorano il 35%: la metà di loro è rappresentata dal giovani under 35.

Screen Istat

Nel complesso degli inattivi, si parla di un totale di oltre 13mila persone calcolate nel solo trimestre da luglio ad agosto, di cui quasi 3mila si dicono disponibili a lavorare ma che non sono attualmente in cerca. Per mille di loro, il motivo è proprio la scarsa fiducia nel successo: mandare il curriculum o candidarsi non servirebbe a nulla.

Qualsiasi lavoro non è meglio di nessun lavoro

Ma cosa scoraggia i giovani a provarci? La narrazione della crisi e della mancanza di lavoro certo non aiuta. Come non aiuta sentire quotidianamente testimonianze di amici o parenti che dicono «è inutile». Ma oltre a un sentire diffuso, c’è di certo anche una realtà dei fatti: non tutte le offerte di lavoro aperte hanno condizioni salariali o contrattuali degne di essere accettate.

Come nel caso dei 10 laureati assunti come netturbini a Barletta, così altre centinaia di giovani devono fare i conti giornalmente con esperienze di lavoro frustranti, sia perché scarsamente retribuite, sia perché ben al di sotto delle loro qualifiche. Molto spesso, avere un lavoro non è sinonimo di fuoriuscita dalla povertà: in Italia in numero di lavoratori poveri è di oltre 17milioni.

A questo si aggiunge il tema delle forme contrattuali, che in alcuni casi sono tirocini male o per niente retribuiti. Così come i minimi salariali previsti dagli stessi contratti collettivi che, molto spesso, in Italia non vengono rispettati.

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Foto di copertina: Anthony Ginsbrook su Unsplash