L’Italia ai tempi del colera. Quando il governo Giolitti nascose un’epidemia che contagiò il mondo
Un interrogativo terribile improvvisamente bussa alla porta: e se i casi di infezione fossero sintomi di una malattia ben più grave? Se fosse l’inizio di una nuova epidemia? Essenziale agire subito, isolare i malati e prevenire il contagio, ragiona il medico che per primo si è accorto di quello che sta accadendo. Decide che è il caso di interpellare subito le autorità competenti, che però lo bloccano. Del morbo non deve sapere niente nessuno. E poi chi lo dice che si tratta davvero di un nuova malattia?
Non siamo a Wuhan ma a Napoli, e il medico non è Li Wenliang – colui che secondo il New York Times avrebbe per primo informato, a inizio dicembre 2019, le autorità cinesi dell’esistenza del nuovo Coronavirus – ma il dottor Henry Downes Geddings, ufficiale americano del servizio sanitario pubblico, di servizio nella città portuale italiana a inizio Novecento, quando Napoli era uno snodo fondamentale delle migrazioni intercontinentali verso l’America, ma anche il centro di “intelligence” nel Mediterraneo della sorveglianza sanitaria americana.
La scoperta di Geddings
Quando, durante l’estate del 1910, il colera comincia a mietere le prime vittime a Napoli, Geddings scrive subito al capo del servizio sanitario italiano a Roma. Comprensibilmente, è molto preoccupato: l’epidemia di colera del 1884 aveva devastato la città, uccidendo circa 6mila persone, due terzi dei decessi totali in Italia.
Circa 60mila persone, all’epoca, erano fuggite dalla città, che allora contava intorno al mezzo milione di abitanti – la più grande del Paese. Da allora il Comune aveva preso degli accorgimenti, costruendo l’acquedotto del Serino per mettere in sicurezza le riserve d’acqua della città e “riqualificando” alcuni quartieri popolari considerati insalubri.
Quando Geddings scrive a Roma ha ben presente questo precedente: sono più di dieci anni che si occupa del colera, che dall’inizio dell’Ottocento si era diffuso dall’India al resto del mondo, e sono diversi anni che vive a Napoli.
Ma la reazione delle autorità ufficiali alla notizia è inaspettata: respingono la diagnosi, insistendo che si tratta semplicemente di gastroenterite, di “Febbre napolitana” o “Febbre maltese”. Nessuna epidemia di colera dunque: Geddings farebbe bene a rimanere in silenzio.
Come a Wuhan, passerà circa un mese prima che le autorità italiane ammettano ufficialmente l’esistenza del colera. Nel frattempo, gli americani non possono aspettare: il rischio di un nuovo contagio è troppo grande, dato che da Napoli partono ogni giorno centinaia di persone per i porti americani.
L’8 settembre Geddings decide di scrivere ai suoi superiori a New York per annunciare l’esistenza di un’epidemia nascosta e descrivere quali misure di profilassi verranno messe in atto nel porto. «Vivevo in un paradiso degli ingenui, degli stolti», scriverà.
L’epidemia nascosta
La decisione di nascondere l’epidemia del colera non riguardava soltanto l’ufficio del servizio sanitario e il Comune di Napoli, ma anche il governo. Meglio contenere e debellare l’epidemia prima che si potesse diffondere la notizia creando scompiglio in Italia come all’estero, danneggiando il commercio, penalizzando le grandi città di porto e alienando una parte dell’elettorato che sicuramente non avrebbe apprezzato le misure restrittive.
Questo l’azzardo dell’esecutivo guidato dal piemontese Giovanni Giolitti. Sotto la sua egida il governo dichiarò l’epidemia finita dopo appena un mese, nell’autunno del 1910, anche se in realtà continuò fino alla primavera dell’anno successivo. Per contenere la bugia fu necessario corrompere ufficiali medici, giornalisti e mentire agli alleati che, nel caso degli Stati Uniti, imposero nuovi controlli sanitari sul porto di Napoli come altrove in Italia e in Europa.
Il costo fu significativo. A causa dell’imbroglio, il contagio arrivò negli Stati Uniti, a New York, dove però l’epidemia fu contenuta per tempo. Quando l’Italia invase la Libia nel 1911, i soldati portarono con loro il colera. Anche la Francia sarebbe stata contagiata da alcuni italiani passati dal porto di Marsiglia. Difficile calcolare il numero totale delle vite che si sarebbero potute salvare, se si considerano anche le vittime italiane che non furono protette in tempo o con le giuste precauzioni.
Geddings continuò a seguire l’epidemia, a registrare i casi e a riportarli diligentemente ai suoi superiori. Un’attività che gli costò minacce e l’ostilità dei salotti buoni napoletani, che fino a poco tempo prima lo avevo accolto calorosamente.
È grazie alle sue lettere, custodite nell’archivio di Stato americano a Washington D.C. e analizzate per la prima volta dallo storico Frank Snowden, che oggi conosciamo la storia di quando fummo noi a nascondere un’epidemia, ben più letale del nuovo coronavirus. Anche se nel nostro caso ci son voluti decenni e non settimane.
Leggi anche:
- Coronavirus, il punto delle 13: isolato il virus a Roma, sale il bilancio in Cina, tornano gli italiani
- Coronavirus, l’annuncio del ministro Speranza: «Abbiamo isolato il virus»
- Coronavirus, contagiati due tedeschi rientrati da Wuhan
- Coronavirus, pronto l’ospedale di Wuhan costruito in 10 giorni – Il video del time lapse
- Coronavirus, da Wuhan a Enna: la storia del 26enne siciliano in «quarantena volontaria»
- Coronavirus, 20 francesi rimpatriati dalla Cina presentano i sintomi del virus
- Coronavirus, in Cina le vittime salgono a 360. In un giorno 56 nuovi decessi. I contagi superano quota 14mila
- Napoli, le ultime ore della Vela Verde di Scampia prima della demolizione