Primarie Usa 2020, il paradosso Bloomberg alla sfida del Super-Martedì

Da quando l’ex sindaco di New York, il nono uomo più ricco al mondo con una fortuna stimata attorno ai $64 miliardi, è entrato in gara ha investito somme gigantesche in pubblicità. Trasformando le primarie

«Michael Bloomberg scommette sulla democrazia nel 2020. Non ha bisogno di persone, ha solo bisogno di sacchi di denaro». Così a novembre 2019 Elizabeth Warren aveva “accolto” l’annuncio di Mike Bloomberg di unirsi alla gara per la casa bianca. La senatrice del Massachusetts è stata tra i primi ad accusare Bloomberg di voler “comprare la democrazia”, ma non certamente l’ultima, come si è visto nel recente dibattito democratico prima delle primarie in Nevada.


Da quando Bloomberg, il nono uomo più ricco al mondo con una fortuna stimata attorno ai $64 miliardi, è entrato in gara ha investito somme gigantesche in pubblicità, facendo balzare in alto la spesa complessiva di tutti i candidati Dem, soprattutto in vista del voto del Super-Martedì. Lo ha fatto sfruttando un paradosso che caratterizza la politica americana che, pur disciplinando i finanziamenti esterni ai candidati permette ai singoli di investire nella propria campagna elettorale quanto vuole.


Il risultato è appunto paradossale perché si crea così uno squilibrio tra candidati che, in teoria, il meccanismo delle primarie vorrebbe perlomeno limitare. E il rischio è che a vincere sia chi ha tanti soldi in tasca.

Quanto hanno speso i candidati per il Super Tuesday? L’effetto Bloomberg

Secondo i dati Kantar Media/CMAG Mike Bloomberg avrebbe speso più di $170 milioni in pubblicità per radio e televisione: dieci volte quanto i suoi rivali democratici. E lo ha fatto distribuendo i suoi milioni in tutti e quattordici gli stati in cui si vota (oltre alle Isole Samoa Americane). A differenza degli altri candidati non ha dovuto rinunciare ad alcuni stati dove ha poca possibilità di vincere (come nel Vermont per esempio, dove la vittoria di Sanders è quasi scontata), pur privilegiando i due stati chiave per numero totale di delegati, la California e il Texas, dove ha speso rispettivamente $56,5 milioni e $43,2 milioni. 

Segue Elizabeth Warren con circa $2 milioni per sette stati, più $11.7 milioni grazie al “Super-Pac” (Political Action Committees) per un totale di 13 stati. Anche Sanders ha speso in tutti gli stati tranne uno –  il Vermont – per un totale di $16 milioni di dollari, di cui poco meno della metà, $7 milioni, soltanto in California. L’ex vicepresidente Joe Biden invece ha speso “soltanto” $1.5 milioni in otto stati: tutti al sud degli Stati Uniti con l’eccezione della California. Tulsi Gabbard, l’ultima dei “piccoli” candidati rimasti in gara dopo gli addii di Buttigieg, Steyer e Klobuchar, $148.195 in tre stati (inclusi la California e il Texas). 

Stando ai dati riportati dal New York Times l’ex sindaco di New York avrebbe speso $410 milioni soltanto in pubblicità televisive in tutta la campagna elettorale, di cui circa $41 milioni soltanto per il Super-Martedì. Per dare un’idea dell’ordine di grandezza della spesa, si tratta di una cifra superiore al totale speso da Hillary Clinton e il Presidente Donald Trump durante tutta la campagna presidenziale del 2016. Quello che i due candidati avevano speso in un anno, Bloomberg è riuscito a spendere in quattro mesi. “L’altro miliardario” delle primarie dem, Tom Steyer, prima di ritirarsi dalla gara delle presidenziali aveva speso $150 milioni per farsi pubblicità in televisione, una cifra considerevole, ma di molto inferiore rispetto a Bloomberg. 

Sono dati che illustrano una tendenza più generale che riguarda l’intera campagna presidenziale, non soltanto il Super-Tuesday, che con l’ingresso di Bloomberg ha visto volare il totale di spesa pubblicitaria. Sempre secondo i dati Kantar, sono stati spesi in totale $626 milioni, di cui la metà circa da Bloomberg ($333 milioni). Prima di lasciare, il secondo candidato ad aver speso di più era Tom Steyer ($157 milioni).

Non è un caso che prima dell’entrata in scena di Bloomberg, la spesa nei primi quattro appuntamenti elettorali – Iowa, New Hampshire, Nevada e Carolina del Sud – era stata più contenuta. Quattro anni fa, nelle scorse primarie, al Super-Tuesday i delegati avevano speso $269 milioni, meno della metà. C’è un altro dato significativo: ad oggi i democratici hanno speso il 96% del totale ($626 milioni). Soltanto il 4% è stato speso dai repubblicani (la campagna di Trump è costata $18 milioni).

L’assenza di un reale sfidante a destra ha quindi permesso a Trump, come anche al partito repubblicano che lo appoggia, di risparmiare moltissimo, in vista delle elezioni di novembre. 

I limiti di spesa

Ma com’è possibile che un singolo candidato possa spendere così tanto in assoluto e anche relativamente ai suoi sfidanti? La democrazia americana non si basa sul sistema di “checks and balances”, i pesi e contrappesi tanto cari ai costituzionalisti liberali? In realtà dei limiti ci sono, ma sono pochi e riguardano soprattutto i finanziamenti esterni alla campagna elettorale. 

Come si legge sul sito del Governo Usa, nella sezione che riguarda i finanziamenti alle campagne elettorale: «Quando i candidati utilizzano i loro fondi personali per scopi di campagna, stanno contribuendo alle loro campagne. A differenza di altri contributi, questi contributi dei candidati non sono soggetti ad alcun limite. Devono, tuttavia, essere segnalati». Per “fondi personali” si intende non solo lo stipendio del singolo candidato e i suoi asset personali e di coppia (proprietà condivise con il proprio coniuge), ma anche dividendi e altri proventi finanziari e perfino i regali ricevuti prima della propria candidatura. 

Il candidato singolo quindi può spendere quanto vuole per finanziare la sua campagna elettorale, anche centinaia di milioni di dollari, se ce l’ha. Il che non vuol dire che può “comprarsi” il voto, una pratica che rimane illegale, ma che può arruolare migliaia di staff in più per fare campagna elettorale, o “occupare” i canali televisivi per farsi pubblicità, come sta facendo Bloomberg. 

Ma quali sono i limiti esistenti? A febbraio la Commissione federale per le elezioni ha annunciato di aver aumentato il limite massimo di contributi che i singoli individui possono dare a $2.800 per ogni periodo elettorale ($5.600) tra primarie e elezioni generali, $100 in più rispetto al 2018. Spiccioli. Per i comitati dei partiti nazionali il limite è stato aumentato da $33.900 all’anno a $35.500. Mentre per i famosi “Pac” i limiti variano dai $2.800 ai $5.000. 

E poi ci sono i “Super-Pac”. Si tratta di una nuovo strumento di finanziamento interno, nato nel 2010, che permette di raccogliere fondi dai singoli cittadini come dal settore privato o dai sindacati con un’unica discriminante: non possono appoggiare alcun candidato direttamente. Ma, come dimostra il caso di Warren, i Super-Pac hanno un grande beneficio: non prevedono limiti. Nonostante questo, per il momento almeno non si avvicinano lontanamente ai finanziamenti di cui dispone l’ex sindaco Bloomberg.

Opensecrets.org / I primi 10 Super-Pacs per ordine di spesa

Grafici di Vincenzo Monaco

Leggi anche: