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Coronavirus, la denuncia a Open: «Mio padre stava male ma hanno detto no al tampone. Ora è in terapia intensiva senza farmaco anti-artrite»

24 Marzo 2020 - 21:43 Fabio Giuffrida
terapia intensiva
terapia intensiva
A Open parla la figlia di Natale Ferlito, 56 anni di Leonforte (Enna) che da giorni si trova in terapia intensiva, per Covid-19, ma che non può essere curato con il Tocilizumab perché «in ospedale non ce l'hanno»

È sabato 14 marzo quando Natale Ferlito, 56 anni di Leonforte, in provincia di Enna, inizia a stare male. La febbre sale a oltre 39 gradi al punto che la paracetamolo non riesce a fargli abbassare la temperatura del corpo. Iniziano così a sorgere i primi dubbi. Natale, infatti, era andato a lavoro fino al giorno prima, in quel Comune dove poi si è scoperta la positività al Coronavirus di un dipendente comunale. Natale è un paziente a rischio: 10 anni fa ha avuto un infarto, è cardiopatico e diabetico.

Cosa è successo

«Quando mio padre ha cominciato a stare male, ha chiamato prima la Protezione civile regionale, poi l’Asp. Ha spiegato di avere dei sintomi sospetti e soprattutto ha riferito delle sue patologie. Nonostante la febbre, però, nessuno gli ha fatto il tampone. Il motivo? Non aveva avuto contatti diretti con il paziente risultato positivo al Covid-19. Ma nessuno dice che viviamo in un paesino di 12mila anime», spiega sua figlia, Francesca, disperata, che da giorni non vede il padre, nemmeno dietro a un vetro.

«Intubato, in coma farmacologico e con i polmoni devastati»

«Hanno aspettato che stesse malissimo per fargli un tampone. Solo quando è venuta l’ambulanza, che lo ha trovato quasi in fin di vita, abbiamo scoperto che fosse positivo al Coronavirus. Ma noi in realtà lo sapevamo già, i sintomi erano chiari», aggiunge. Da quel momento, da quando papà Natale è salito sull’ambulanza, lei non lo ha più visto. Sanno che è «in coma farmacologico, che è intubato e che la situazione dei suoi polmoni è devastante»: «Se l’avessero ricoverato prima, forse non saremmo arrivati a questo punto». Oggi, alle 12, la solita chiamata in ospedale, all’Umberto I di Enna, e la solita risposta: «Situazione stazionaria, è intubato». Una telefonata che Francesca fa insieme alla mamma, ogni giorno, mantenendosi alla distanza di due metri: «Io sto al piano sotto, mia madre e mio fratello, che sono ovviamente in quarantena, a quello sopra. Ci vediamo sulle scale che sono diventate il nostro incubo».

«Manca il farmaco anti-artrite»

«Ci sentiamo inutili, non dormiamo la notte. Ci sembra un incubo, non riusciamo a realizzare che sia successo così all’improvviso», dice. E poi l’appello a Open: «In ospedale non è ancora arrivato il farmaco anti-artrite, il Tocilizumab, che, pare, abbia degli effetti positivi nella lotta contro il virus (dunque non cura il coronavirus ma «riduce l’effetto del fattore di infiammazione visto che il Covid-19 produce una reazione infiammatoria molto ampia»). Dicono che non ce l’hanno, ma noi vorremmo avere quest’ultima possibilità. Non c’è più tempo da perdere». A confermare la mancanza del farmaco a Open è il dott. Fabrizio Pulvirenti, medico guarito dall’Ebola e infettivologo proprio all’ospedale Umberto I di Enna dove è ricoverato Natale: «Lo abbiamo richiesto quattro giorni fa ma ancora non è arrivato. È determinante perché riduce notevolmente l’infiammazione polmonare, accelerando la guarigione. Non è essenziale, ma utile. Ovviamente i pazienti più delicati hanno un uso più urgente del farmaco. Ai familiari dei pazienti che minacciano di denunciarci rispondiamo che non è colpa nostra, noi siamo a posto. Siamo stremati ma sappiate che, un conto è lavorare con i farmaci che servono per combattere il virus, un conto è “elemosinare” il farmaco a chi ce l’ha».

Foto in copertina di repertorio: Andrea Canali per Ansa

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