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Coronavirus. «I pazienti morivano senza tampone. Un medico ci chiese di togliere le mascherine»: il personale del Pio Albergo Trivulzio deposita la denuncia

08 Maggio 2020 - 08:57 Redazione
trivulzio
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Attraverso la prima denuncia depositata da parte del personale, il Corriere della Sera ricostruisce quanto accaduto all'interno della struttura

Tra marzo e aprile nella residenza per anziani Pio Albergo Trivulzio sono morte 203 persone, con sintomi riconducibili al Coronavirus. Un dramma che assume le note di una strage, consumatasi a pochi chilometri dal centro di Milano. Attraverso la prima denuncia depositata da parte del personale, il Corriere della Sera ha potuto ricostruire quanto accaduto all’interno della struttura. Dagli infermieri costretti a portarsi le mascherine da casa, agli anziani con i sintomi della Covid-19 trattati senza le dovute protezioni. Il racconto parte dal reparto meno colpito, il “Grossoni”, ma dal quale il personale della struttura ha osservato tutto, anche quegli spostamenti «pericolosi» andati avanti fino al 22 aprile. Ed è indicativo che, se il reparto per la riabilitazione dei pazienti cardiologici Grossoni è rimasto a contagio (quasi) zero, è proprio perché gli infermieri hanno attuato un proprio protocollo di sicurezza senza aspettare le disposizioni dei dirigenti della struttura.

La prima stanza isolata e l’arrivo di nuovi pazienti

Dopo il caso del cosiddetto paziente uno, il 21 febbraio a Codogno, nel reparto Grossoni del Trivulzio è stato individuato un primo caso sospetto di positività al Sars-CoV-2. La persona viene isolata in una stanza singola il 26 febbraio: non può uscire, ma «non si indicano protezioni da adottare». Morirà il 10 marzo, per una crisi respiratoria che sarà refertata come tale, senza effettuare il test diagnostico per il Covid-19. Nella struttura continuano ad arrivare nuovi pazienti. La Lombardia sta già affrontando la prima ondata dell’emergenza e i nuovi ingressi nell’Rsa non vengono sottoposti a tampone. Anzi, i pazienti, considerati a rischio Coronavirus, rimangono nei padiglioni della residenza senza diagnosi e senza essere isolati dagli altri ospiti. Intanto la stanza predisposta per l’isolamento nel Grossoni viene assegnata, già l’11 marzo, a un altro paziente. Nel giro di pochi giorni si ammala: febbre alta, insufficienza respiratoria, muore il 30 marzo. Nonostante alcuni sintomi incontrovertibili, la diagnosi per il Coronavirus non viene eseguita. Resta il forte dubbio che questi pazienti e il personale che li ha visitati possano aver fatto girare il virus in tutto il Trivulzio: la mancanza delle diagnosi, i pochi isolamenti e gli spostamenti tra reparti sarebbero le cause della diffusione del contagio.

Nessuna protezione

Insieme all’evidente preoccupazione degli infermieri del Grossoni, «sprovvisti dei dispositivi di protezione individuali», cresce il numero degli anziani con polmoniti: a marzo sono almeno tre nel solo reparto. Il personale inizia a procurarsi le mascherine privatamente, ma avviene una discussione con una dottoressa della dirigenza del Trivulzio in visita nel reparto. «Non è necessario indossare le mascherina», spiega al personale. A un’infermiera che ne indossa una, acquistata all’esterno della struttura, la dottoressa chiede di non utilizzarla «per non creare scompiglio tra i degenti». Solo il 20 marzo arrivano al Trivulzio e vengono distribuiti i primi stock di mascherine. Nel Grossoni, nonostante manchino indicazioni in tal senso, il personale le fa indossare anche ad alcuni degenti. Inizia una sorta di autogestione del reparto, per cercare di limitare il contagio. Infermieri e medici del reparto Grossoni si accordano per portare i pasti direttamente nelle stanze dei pazienti così da non creare assembramenti nella mensa comune. Quando i dirigenti scoprono questa procedura, il personale del reparto riceve un richiamo per ripristinare il normale servizio nel salone. Il personale riuscirà a mantenere in camera solo la somministrazione di colazione e cena.

La situazione implode

Pazienti e personale vengono spostati con frequenza da un reparto all’altro: è una delle cause che avrebbe contribuito alla diffusione del virus nel Trivulzio e in generale nelle Rsa. Un’infermiera viene spostata dal Grossoni a uno dei cosiddetti reparti «sporchi», il Sant’Andrea. Si infetterà pochi giorni dopo il trasferimento: va in pronto soccorso e il tampone dà esito positivo. Alla struttura, ma su questo aspetto sarebbe la Regione ad avere competenza, i primi tamponi arrivano soltanto il 16 aprile. Ed è in quei giorni che inizia una riorganizzazione dell’Rsa, con la separazione di positivi e negativi in diversi reparti. Gli spostamenti dei pazienti, tuttavia, iniziano immediatamente, senza aspettare l’esito del secondo tampone di conferma. Al Grossoni, infatti, arrivano cinque ospiti della struttura ritenuti negativi al Coronavirus. Nonostante questo, medici e infermieri si preoccupano di sistemarli in stanze lontane dagli altri pazienti. E hanno avuto ragione: sei giorni dopo il trasferimento, il 28 aprile, una paziente appena arrivata manifesta i primi sintomi e risulta positiva al Covid-19. È rimandata indietro d’urgenza e solo la cautela del personale ha permesso che non contagiasse altri ospiti del reparto Grossoni.

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