«Il Coronavirus ha diminuito la sua carica virale»: cosa dice lo studio del San Raffaele citato da Zangrillo

La capacità replicativa del virus a maggio risulta «enormemente» indebolita rispetto a quella che abbiamo avuto a marzo. L’intervista del Corriere della Sera al curatore dello studio

Il professor Massimo Clementi è il direttore del laboratorio di microbiologia e virologia al San Raffaele di Milano. È lui il curatore dello studio alla base della discussa dichiarazione di Alberto Zangrillo, nella quale ha definito «clinicamente morto» il Coronavirus. L’analisi è ancora in corso di pubblicazione, ma Clementi ha rilasciato un’intervista al Corriere della Sera anticipando quei «fatti» su cui Zangrillo ha detto di basare le sue posizioni.


La situazione nelle terapie intensive e sub-intensive

Al San Raffaele «non solo non abbiamo più nuovi ricoveri per Covid-19 in terapia intensiva, ma nemmeno in semi-intensiva», dice Clementi. Stando ai dati della Protezione Civile, in Italia il numero delle terapie intensive è in progressivo calo da settimane (ieri 435). Il dato da solo, però, non specifica il rapporto numerico tra entrate e uscite, e non è sufficiente per capire quale sia il numero (medio o no) di nuovi ingressi giornalieri. Lo studio del San Raffaele si basa, a detta di Clementi, su un’indagine generale, ma il focus specifico (e pratico) è su quello che accade nell’ospedale milanese.


Perché?

Secondo il professore, il motivo per cui nelle ultime settimane da loro sono arrivati «pochi pazienti e tutti con sintomi lievi» è che la capacità replicativa del virus a maggio risulta «enormemente» indebolita rispetto a quella che abbiamo avuto a marzo. Si tratta, questa, di una posizione derivante dall’analisi di 200 pazienti del suo ospedale: «Abbiamo paragonato il carico virale predente nei campioni prelevati con il tampone – insiste Clementi – e i risultati sono straordinari». La conseguenza pratica di questo “indebolimento” sarebbe dunque il cambiamento nella manifestazione cinica della Covid-19. Anzi, per Clementi stiamo davanti a una «una malattia diversa» rispetto a quella che avevamo agli inizi (anche se non c’è prova che il patogeno abbia subito una mutazione, e un cambiamento nel carico virale non significa necessariamente che l’abbia fatto). «Lo scarto è abissale», dice. La causa non sarebbe ancora chiara, ma, secondo i ricercatori, probabilmente potrebbe essere collegata alle «condizioni ambientali più favorevoli (per noi, ndr)». Ma anche al fatto che il Sars-Cov-2 si stia replicando per un «co-adattamento all’ospite». Cioè: «l’interesse del microrganismo è sopravvivere all’interno del corpo e diffondersi ad altri soggetti: obiettivi irragiungibili se il malato muore a causa dell’infezione».

Ancora un po’ più di chiarezza

Il fatto che la capacità replicativa del Coronavirus sia diminuita rispetto all’inizio dell’epidemia significa anche che la quantità di virus presente in un paziente è minore rispetto ai primi casi. Per misurarne la quantità, Clementi si è affidato ad alcune tecniche già in uso per l’Aids, che consistono nel misurare gli acidi nucleici dei soggetti (in questo caso l’Rna di Sars-Cov-2), «ovvero le copie del virus rilevabili nel rino-faringe del paziente». Nello studio su 200 pazienti, «c’è stato uno scarto estremamente rilevanti tra il carico virale dei pazienti ricoverati a marzo e quelli di maggio». Quindi, insomma, l’emergenza è definitivamente finita? «Nessuno lo può sapere», dice Clementi. A cambiare davvero le cose in un’ipotetica seconda ondata, conclude, sarà il modo in cui sapremo reagire, «isolando i pazienti, individuando i contatti e affidandoli alla medicina di territorio per lasciare gli ospedali solo a eventuali casi gravi».

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