Coronavirus, il guru Bruce Schneier: «Le app di contact tracing? Inutili. Margini di errore troppo alti» – L’intervista

L’esperto di sicurezza informatica spiega perché la soluzione tecnologica messa in campo dai governi (Italia compresa) per contenere i contagi rischia di essere dannosa

Coronavirus, ultime notizie (6 agosto)


Quando il giornalista Glenn Greewald ha dovuto cercare uno specialista che decifrasse la mole di documenti della National Security Agency consegnati da Edward Snowden non ha avuto dubbi: c’era solo una persona in America capace di tradurre codici e algoritmi in informazioni chiare per un pubblico ampio. E quella persona si chiamava Bruce Schneier.


Sette anni dopo, con la stessa lucidità con cui ha contribuito a svelare il sistema di spionaggio del governo americano ai danni dei cittadini, Schneier – una ventina di libri, ricercatore del Berkman Center for Internet & Society di Harvard, consulente del Dipartimento della difesa e di aziende (ultima l’IBM) – sintetizza così il suo giudizio sulle app di contact tracing: «La questione non è se siano una minaccia per la privacy degli individui o un pericolo per la democrazia: è che non servono assolutamente a nulla».

Come si valuta l’efficacia

Per l’esperto di sicurezza informatica – 57 anni, codino e folta barba grigia – l’idea di fare affidamento su un’applicazione per tracciare i contagi e contenere l’epidemia di Coronavirus «semplicemente non funziona».
Schneier, che nel suo primo libro aveva definito la crittografia “un’utopia matematica” dove la matematica perfetta viene utilizzata per realizzare una sicurezza indistruttibile, negli anni ha rinunciato al tecno-ottimismo delle origini a favore di uno scrupoloso realismo.

«L’efficacia del tracciamento – dichiara – dipende soprattutto da due fattori: la quantità di falsi positivi e falsi negativi». Il falso positivo rappresenta quella percentuale di contatti che per ragioni diverse il sistema non riconosce nella trasmissione di dati. «Se si utilizzano app di prossimità e geolocalizzazione che si basano su Gps e Bluetooth, il rischio è molto elevato», afferma.

La geografia del rischio

L’infrastruttura è quella studiata dalla join venture Apple e Google ma ciascuna app viene sviluppata autonomamente nei diversi Paesi, che decidono la distanza da monitorare e il tempo di esposizione. Nel caso della italiana Immuni, si considerano persone a meno di due metri di distanza per almeno 15 minuti. Secondo Schneier, sono troppe le circostanze che in quella porzione di tempo e di spazio possono confondere la app: «Può esserci un muro molto poroso tra due persone e il segnale lo attraversa senza accorgersi della presenza».

Allo stesso modo, il segnale Bluetooth non è in grado di capire se le persone stanno indossando sistemi di protezione o se una folata improvvisa di vento spinge via il virus. Schneier cita uno studio del Brooking Institution secondo cui le app – non essendo in grado di distinguere e isolare – finiscono con il coprire tutti i livelli di rischio del contagio: da quello molto basso della fila al supermercato con la mascherina in avanti. Il risultato? Migliaia di segnalazioni. «Avere dati imprecisi – puntualizza Schneier – è peggio di non avere dati».

Il problema dei falsi negativi riguarda invece «la percentuale di popolazione che non ha internet, ma anche quelli che non portano con loro il telefono». Succede poi che il contagio riesca ad andare più veloce della capacità di tracciarlo: uno starnuto di un passante che si allontana subito, per esempio. Casi diversi ma con un esito comune: il senso di falsa sicurezza che può dare non ricevere mai un alert crea conseguenze pericolose al pari di tanti falsi allarmi. «Una app di cui non puoi fidarti può fare molti danni», commenta Schneier.

Il teatro della sicurezza

Quello che accade oggi con il contract tracing per il Coronavirus non è molto distante dalla tecnologia di sorveglianza del trasporto aereo portata avanti dal governo americano dopo l’11 settembre, un sistema che il crittografo aveva definito «il teatro della sicurezza»: un’architettura progettata per comunicare un senso di sicurezza nonostante fosse molto debole nelle fondamenta e nella struttura. Lo stesso accade oggi.

È il soluzionismo tecnologico delle apparenze: quello che ha fatto e fa ancora illudere che app, internet e algoritmi possano risolvere questioni che devono essere invece affrontate solo con politiche complesse. La risposta al Coronavirus non si trova in Silicon Valley. Secondo l’esperto, «per contrastare la diffusione del virus servirebbe un’operazione di testing veloce, accurata, economica e ubiqua».

Schneier usa parole di elogio a proposito di chi – come lo Stato del Massachusetts – invece di investire risorse in una app sta sperimentando il tracciamento manuale. Lo Stato governato dal repubblicano Charlie Baker ha promosso un piano da 44 milioni di dollari per assumere e formare 1000 Coronavirus tracer che dovranno assistere e guidare potenziali contagiati.

Come riporta il New York Times, il Massachusetts non è il solo a investire sugli umani: Trump ha annunciato l’assunzione di centinaia di nuove figure al Centers for Disease Control and Prevention che assisteranno gli americani nel ritorno a scuola e al lavoro. La più vicina Irlanda sta formando 1000 lavoratori governativi per svolgere lo stesso compito.

Il tracciamento “manuale”

«La moneta di scambio più importante per riuscire ad ottenere qualcosa dai cittadini è la fiducia», spiega Schneier. Se è vero che la vera sfida della fase 2 consiste in quello che i probabili contagiati decideranno di fare dopo la notifica (di contatto con un paziente Covid), è fondamentale non essere lasciati da soli in quel momento ma avere professionisti empatici e competenti che sappiano guidarli nel percorso giusto. Decidere cosa fare «non è una questione di responsabilità individuale ma di salute pubblica».

Un paradosso che diventa ancora più evidente se si pensa che Jason Bay, l’uomo che ha sviluppato la app di contact tracing più efficiente al mondo – quella alla base del “modello Singapore”: 20 morti per 22.460 contagiati su una popolazione di 5,6 milioni di abitanti – ha dichiarato: «Se mi chiedete se qualsiasi sistema di tracciamento dei contatti che passa da Bluetooth, in qualsiasi luogo del mondo, sia pronto a sostituire il tracciamento manuale, la mia risposta è inequivocabilmente no».

E a chi oggi si domanda che fine faranno i dati personali presenti sulle app, Schneier risponde ancora una volta caustico: «Siamo già in un sistema di sorveglianza, si fonda sui nostri smartphone che dicono tutto di noi».
Ancora una volta è una questione di scambio: «Cosa riceve un utente per tutto ciò che dà?». Nel caso delle app di tracciamento la risposta del guru non lascia spazio a fantasia: «Niente».

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