Medici in fuga dall’Italia: via in 9 mila, dove li trattano meglio

Imbuto formativo e paga inferiore rispetto al resto d’Europa: fare il medico in Italia non è attrattivo per le giovani generazioni, che sempre più spesso decidono di scappare all’estero

Più di mille medici l’anno. Sono 9mila i professionisti che negli ultimi 8 anni hanno scelto di lasciare il nostro Paese per andare a lavorare all’estero. In 10 anni, sono stati oltre 11mila (2008-2018). I motivi, ancora una volta, sono essenzialmente due: la scarsa attrattività della nostra offerta – sia dal punto di vista remunerativo che dal punto di vista delle prospettive sul futuro- e i tagli alla Sanità.


La cifra, ripresa da uno studio della Corte dei Conti dal titolo «Rapporto 2020 sul coordinamento della finanza pubblica», è fornita dall’Ocse. La maggior parte dei medici sceglie di andare nel Regno Unito (4.274 su un totale di 11.024 expat in 10 anni), ma anche in Germania, Svizzera, Belgio e Francia. Paesi che hanno rappresentato una «soluzione alle legittime esigenze di occupazione e adeguata retribuzione quando non soddisfatte dal settore privato nazionale».


Strettamente collegato ai due temi della fuga c’è quello della difficoltà dei medici abilitati ad accedere alle scuole di specializzazione. Come ampiamente raccontato da Open, il problema dell’imbuto formativo disegna in maniera importante lo stato attuale del Servizio sanitario nazionale. «Le ragioni alla base di tale difficoltà – scrivono dalla Corte dei conti – sono state individuate nel numero non adeguato di posti annualmente definito per l’accesso alle Scuole di specializzazione, nell’elevata uscita dei medici dal SSN per pensionamento, a cui si accompagna una diminuita attrattività del servizio sanitario pubblico da parte dei professionisti. che si evidenzia anche, in alcuni casi, nella limitata partecipazione alle procedure concorsuali».

Oltre a lasciare fuori i nuovi professionisti – che poi vengono, anche per la qualità della formazione, assunti all’estero -, la questione ci mette davanti al paradosso di essere il primo Paese al mondo per numero di medici e quello con la media più alta dal punto di vista dell’età. In termini numerici, in Italia operano 3,9 medici per 1000 abitanti, contro i 4,1 in Germania, i 3,1 in Francia e i 3,7 in Spagna. Per oltre il 50% dei casi, l’età media del personale è superiore ai 55 anni: una cifra che ci posizione in cima alla classifica dei paesi Ue con 16 punti percentuali al di sopra della media europea dell’Ocse (diverso il caso degli infermieri che, al contrario, sono in numero decisamente inferiore alla media).

Il problema del turnover, unito a quello dell’imbuto formativo e a quello dell’incertezza sulla crescita professionale (soprattutto in alcune regioni), fa sì da una parte che l’Italia non resti formalmente e numericamente in debito di professionisti, ma che, dall’altra, nelle situazioni d’emergenza – come quella del Coronavirus – si sia costretti a richiamare in pista i medici pensionati e non a far subentrare le nuove forze lavorative.

Una nota positiva

Tra le note positive – oltre al fatto che il nostro sistema formativo risulta tra i migliori d’Europa – c’è l’osservazione del Ministero della salute: l’aumento delle certificazioni rilasciate per la libera circolazione dei medici verso i Paesi dell’Unione non corrisponde necessariamente al numero dei medici che effettivamente si trasferiscono stabilmente all’estero.

La stragrande maggioranza dei professionisti che scelgono di trasferirsi fuori dal Paese rimane iscritto a un Ordine italiano. Non tutto è quindi perduto, e i medici potrebbero essere disposti a rientrare qualora le condizioni iniziassero a migliorare. Ora un’occasione c’è: ma molto dipenderà da come si sceglierà di usare gli strumenti di finanziamento europei (Mes light, ma anche Recovery Fund) e a quali riforme si aggrapperanno.

Leggi anche: