«Ma quali eroi! Non è cambiato niente». Dai gruppi Facebook agli ospedali monta la rabbia dei giovani infermieri. E ora è pronta a occupare le piazze

Alcuni di loro sono stati nominati cavalieri della Repubblica. Ma gli infermieri si sentono dimenticati. E per tutto il mese di giugno riempiranno le piazze italiane per protestare contro le «condizioni lavorative indecorose»

«Ci avete chiamato eroi. Ma la verità è che sono soltanto parole. Retorica dettata dall’emergenza e dalla paura. Nei fatti per noi infermieri non è cambiato nulla. Stessa paga da fame. Stessa vita d’inferno. Stessi rischi professionali…». Alcuni di loro sono stati nominati Cavalieri della Repubblica dal presidente Sergio Mattarella: segno che almeno il Quirinale non si dimentica. Ma fra gli infermieri italiani, soprattutto tra i più giovani, la rabbia monta.


L’indignazione cresce nei gruppi Facebook, già con decine di migliaia di iscritti, nati durante l’emergenza sanitaria, nei corridoi degli ospedali, nelle riunioni con i rappresentanti sindacali. E quella parola, “eroi”, che finora non ha avuto alcun seguito pratico, fa ribollire ancora di più il sangue nelle vene. Adesso, questa rabbia è pronta a prendersi le piazze.


Giugno sarà un mese caldo, un mese di proteste, organizzate in tantissime città italiane e che coinvolgeranno migliaia di operatori sanitari. Era già successo a Torino, in piazza Castello, lo scorso 20 maggio: il sindacato di categoria Nursind ha organizzato un flash mob per denunciare le condizioni di lavoro degli ultimi mesi e chiedere il giusto riconoscimento economico per quanto fatto durante l’emergenza sanitaria del Coronavirus.

ANSA/ ALESSANDRO DI MARCO | La protesta degli infermieri del sindacato Nursind in piazza Castello, a Torino

Con i polsi incatenati e indossando sacchi neri della spazzatura al posto dei camici, gli infermieri hanno spiegato il senso della mobilitazione con queste parole: «Ci avete abolito per legge la quarantena preventiva facendoci diventare untori dei nostri colleghi, dei nostri pazienti e delle nostre famiglie».

E ancora, nella lettera indirizzata alla Regione Piemonte: «Non ci avete fatto i tamponi nonostante molti di noi avessero sviluppato sintomatologia. Abbiamo indossato sacchi dell’immondizia rinunciando anche alla nostra dignità personale e abbiamo dovuto indossare pannoloni sotto le tute perché ci era impossibile fare i nostri bisogni». Denunce che non hanno sortito effetti. Per questo, nel mese di giugno, gli infermieri di tutta Italia protesteranno da Nord a Sud: sono decine i flash mob in calendario, di cui una buona parte non ha nessuna paternità sindacale.

ANSA/ ALESSANDRO DI MARCO | La protesta degli infermieri del sindacato Nursind in piazza Castello, a Torino

«Dopo decenni in cui la nostra professione è rimasta nell’ombra, abbiamo finalmente ascoltato delle parole di riconoscenza nei nostri confronti. Ma sono rimaste solo parole». Daniela Maggio ha 27 anni e lavora come infermiera all’ospedale Policlinico di Milano. È l’organizzatrice del flash mob di Milano del 15 giugno: quello stesso giorno, alla stessa ora, le 10 del mattino, saranno 32 le città italiane che vedranno scendere in piazza migliaia di infermieri. «Durante la fase acuta dell’emergenza, tanti giovani infermieri hanno iniziato a riunirsi in diversi gruppi Facebook per sostenersi l’uno con l’altro».

Le rivendicazioni

Così è nato il Movimento nazionale degli infermieri, un gruppo privato che conta oltre 35 mila iscritti. «Siamo un movimento nel senso che ci stiamo mobilitando – racconta Maggio -, ma siamo apolitici e non abbiamo nessuna affiliazione sindacale. Semplicemente, non ce la facciamo più». I motivi del malcontento sono tanti: «Abbiamo gli stipendi più bassi di Europa», un infermiere italiano, in media, guadagna 1.500 euro al mese, «e siamo inquadrati come se fossimo degli operai della sanità». Le rivendicazioni dei flash mob di giugno sono ben riassunte dagli otto punti della lettera della Fnopi, la Federazione nazionale ordini delle professioni infermieristiche, indirizzata a governo e Regioni:

  • Un’area contrattuale infermieristica che riconosca peculiarità, competenza e indispensabilità ormai evidenti di una categoria che rappresenta oltre il 41% delle forze del Servizio sanitario nazionale e oltre il 61% degli organici delle professioni sanitarie.
  • Una indennità infermieristica che, al pari di quella già riconosciuta per altre professioni sanitarie della dirigenza, sia parte del trattamento economico fondamentale, non una “una tantum” e riconosca e valorizzi sul piano economico le profonde differenze rispetto alle altre professioni, sempre esistite, ma rese evidenti proprio da Covid-19.
  • Garanzie sull’adeguamento dei fondi contrattuali e possibilità di un loro utilizzo per un’indennità specifica e dignitosa per tutti i professionisti che assistono pazienti con un rischio infettivo.
  • Garanzie di un adeguamento della normativa sul riconoscimento della malattia professionale in caso di infezione con o senza esiti temporanei o permanenti.
  • Immediato adeguamento delle dotazioni organiche con l’aggiornamento altrettanto immediato della programmazione degli accessi universitari: gli infermieri non bastano, ne mancano 53mila ma gli Atenei puntano ogni anno al ribasso.
  • Aggiornamento della normativa sull’accesso alla direzione delle aziende di servizi alla persona: siamo sul territorio, dove l’emergenza ha dimostrato che non è possibile prescindere da una competenza sanitaria di tipo assistenziale a garanzia degli ospiti. Come nelle RSA ad esempio dove da ieri si stanno destinando proprio infermieri, quelli del contingente dei 500 volontari scelti dalla Protezione civile, ma anche a domicilio con cronici, anziani, non autosufficienti e così via.
  • E per questo – è la settima richiesta – dare anche agli infermieri pubblici – superando il vincolo di esclusività, un’intramoenia infermieristica già scritta anche in alcuni Ddl fermi in Parlamento che gli consenta di prestare attività professionale a favore di strutture sociosanitarie (Rsa, case di riposo, strutture residenziali, riabilitative…), per far fronte alla gravissima carenza di personale infermieristico di queste strutture. Applicando anche nel caso la legge 1 del 2002) di 18 anni fa quindi) che prevedeva prestazioni aggiuntive e possibilità che altro non sono se non il richiamo in servizio di pensionati e contratti a tempo determinato utilizzati una tantum (ma indispensabili a quanto pare) per Covid-19.
  • Tutte le novità chieste per il servizio pubblico dovranno servire anche per accreditare e autorizzare le strutture private dove dovranno essere inserite e previste a questo scopo.
ANSA/ ALESSANDRO DI MARCO | La protesta degli infermieri del sindacato Nursind in piazza Castello, a Torino

I flash mob del 15 giugno saranno una protesta silenziosa: «Parleranno i nostri cartelloni», spiega Maggio. Gli infermieri indosseranno jeans e t-shirt bianca. «Avremo le braccia conserte per 30 minuti». Poi, alle 10.30, i manifestanti faranno volare dei palloncini rossi biodegradabili in memoria dei colleghi defunti per Covid-19. «Il flash mob si chiuderà con un lungo applauso che riempirà piazza Duomo a Milano». Il movimento sta aspettando il via libera della questura, mentre la manifestazione di Roma, in Piazza del Popolo, è stata già autorizzata.

Il cambiamento culturale

«Il ministro Manfredi ha provato a togliere agli infermieri la possibilità di insegnare la nostra professione ai giovani colleghi in università – aggiunge Maggio -, la nostra è diventata una vera battaglia culturale per la figura infermieristica. È triste lavorare ascoltando gli sfottò degli stessi pazienti che ci chiamano “vice-dottori” o “dottorini”. Non siamo subalterni ai medici, siamo figure professionali diverse ed esigiamo lo stesso rispetto dei medici».

FACEBOOK | Daniela Maggio, 27 anni, infermiera all’ospedale Policlinico di Milano

La giovane infermiera ricorda che il suo lavoro non consiste nel cambiare i pannoloni, come molti credono. «Quello è un compito che spetta agli Oss – gli operatori socio-sanitari. All’infermiere, visto il percorso di studi universitari che deve compiere, spetta una ruolo più intellettuale, non il rifacimento dei letti che spetta agli operatori non laureati. Purtroppo le aziende sanitarie, in difficoltà economica e sempre sotto organico, assumono gli infermieri obbligandoli a fare entrambi i mestieri: tanto la somministrazione di farmaci e le iniezioni intramuscolari quanto il cambio di pannoloni e il giro letti».

Un giugno di fuoco

L’infermiera Maggio è contenta dell’idea di un gruppo di giovani colleghi, che hanno scelto di mobilitarsi senza aspettare i sindacati «troppo attendisti», abbia portato anche le sigle della categoria a organizzare manifestazioni lungo tutto il mese di giugno: «Il nostro intento è comune, ovvero ottenere condizioni di lavoro dignitose». Così, il sindacato Nursing Up ha indetto 12 flash mob dal 4 al 9 giugno. Anche Nursind riempirà le piazze di molte città, per un calendario fitto di manifestazioni che coinvolgerà gli infermieri italiani fino alla fine del mese.

TWITTER | La foto simbolo della lotta al coronavirus scattata da un medico dell’ospedale di Cremona mostra un’infermiera ritratta addormentata sulla tastiera con ancora guanti. mascherina, camice e copricapo addosso, 10 marzo 2020

Parteciperà alle manifestazioni indette dal suo sindacato, Nursing Up, Pierlucia Vercesi, 52 anni di cui 32 passati in servizio come infermiera al Fatebenefratelli di Milano. «Sciopererò perché il nostro contratto è davvero pietoso, sia dal punto di vista economico che di tutele. Ci hanno chiamato eroi ma di fatto non lo siamo: abbiamo stipendi inadeguati al resto dell’Europa e per tutte le responsabilità che ci vengono riconosciute a livello legale ci vuole un contratto più dignitoso. Se dovessimo mancare negli ospedali e nelle cliniche, la sanità si ferma».

La sua busta paga, dopo oltre 30 anni di servizio nella tanto decantata “prima linea”, «ho gestito anche pazienti Covid», arriva a 1.600 euro al massimo. «Ho tre figli e un mutuo da pagare. Le indennità per i notturni sono ridicole, parliamo di un paio di euro lordi all’ora». Se il suo stipendio non cambia ormai da anni, il lavoro di Vercesi, invece, durante l’emergenza sanitaria è stato stravolto: «Ci siamo ritrovati a smantellare dei reparti per costruirne degli altri, mettendo da parte la figura professionale e fingendoci magazzinieri, operai per costruire reparti in grado di garantire la sopravvivenza ai malati di Covid».

Le condizioni di lavoro devastanti

Nonostante l’epidemia, adesso, abbia un impatto minore sulla tenuta degli ospedali, Vercesi è segnata dalle «condizioni di lavoro devastanti della prima fase dell’emergenza. Avevamo dispositivi di protezione individuale non idonei e tutt’ora lavoriamo con dei dispositivi che non ti permettono un’adeguata respirazione. Tenere otto nove ore al giorno i guanti, la mascherina, la cuffia ci distrugge». Nel suo ospedale, con l’arrivo del caldo, la situazione è peggiorata: «Non si possono ancora raffreddare gli ambienti. Sono state interpellate le ditte che eseguono la manutenzione di aria condizionata, ma ci sono dei tempi tecnici lunghissimi perché le soluzioni di disinfettanti sono bloccate in Cina. Gli ambienti adesso sono di un caldo infernale».

Pierlucia Vercesi, 52 anni, infermiera all’ospedale Fatebenefratelli di Milano

Vercesi, con voce esausta, ammette di star attraversando un periodo di profondo stress. Alcuni suoi colleghi hanno sviluppato forme di paranoia per la sanificazione, altri non dormono più e vivono con l’incubo di poter infettare i propri cari. «C’è chi ha paura della propria ombra. Questa esperienza mi ha segnato soprattutto nella fase di rientro a casa: non poter riabbracciare i miei figli perché non posso sapere, lavorando in ospedale, se ho contratto o meno il virus, è pesante». Intanto i turni di lavoro si sono allungati: se prima Vercesi e i suoi colleghi entravano in servizio con cinque minuti di anticipo, adesso devono arrivare in ospedale 45 minuti prima e 45 minuti dopo per le pratiche di vestizione a inizio turno e disinfezione alla fine.

«Mi sono sentita umiliata dal dover lavorare per vivere, senza avere la certezza di potermi proteggere perché, soprattutto all’inizio, i dispositivi di protezione individuale non erano adeguati». In otto ore di lavoro, Vercesi può andare in bagno solo una volta perché, in dotazione, ha solo due camici idrorepellenti. «Non oso pensare le mie colleghe in età fertile: con il ciclo mestruale, sono obbligate a rimanere 4 ore con lo stesso assorbente. Anche dal punto di vista dell’autostima è tutto così deprimente – dice -. Ho visto il terrore dei pazienti quando comunicavo loro la positività e l’ho fatto mio. Non dimenticherò mai l’inferno vissuto in questi tre mesi».

Vercesi conclude rivolgendosi al governo: «Se il ministro Speranza e il primo ministro Conte potessero ascoltarmi, chiederei loro di rivedere quelle che sono le contrattazioni di tutte le professioni sanitarie. Ci avete chiamato eroi, avete detto che senza di noi non si sarebbe salvato nessuno, ma avete fatto un decreto legge dove gli infermieri sono stati dimenticati. L’eroe rimarrà sul libro di storia, noi rimarremo a scontrarci con una realtà dove siamo considerati il fanalino di coda della grande macchina della sanità. La verità è che per voi siamo tutto tranne che eroi».

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