Coronavirus, perchè in Lombardia i casi non diminuiscono? Il virologo Crisanti: «Dati confusi, indice Rt inaffidabile, stiamo correndo un grosso rischio»

C’è troppa confusione nell’esecuzione e nella registrazione dei tamponi – spiega il responsabile del Laboratorio di Microbiologia e Virologia dell’Azienda ospedaliera di Padova-, le decisioni prese in materia di riaperture non si basano su dati certi»

Calcolatrice alla mano, c’è qualcosa che non torna nei dati relativi all’epidemia Coronavirus nella regione più colpita di Italia. In Lombardia, quando si decide di sottoporre un individuo al test con il tampone, una volta su cinque quella persona è positiva, il 19%. Nessuno screening di massa, dunque: le analisi vengono fatte su soggetti che hanno un rischio concreto di aver contratto la Covid-19. Rapportando la percentuale al totale della popolazione, un milione e 900 mila lombardi sarebbero stati infettati dal virus.


Un calcolo puramente quantitativo: l’auspicio è che se davvero l’intera Lombardia fosse sottoposta a test, la percentuale si abbasserebbe. Se non altro, il rapporto tra casi testati e persone positive alimenta i dubbi: dov’è finita la strategia delle 3T, testare, tracciare, trattare? Come mai, a tre mesi e mezzo dall’inizio dell’epidemia in Italia, la regione più impattata è riuscita a sottoporre a tampone soltanto il 4,7% della sua popolazione?


Il Piemonte, seconda regione più colpita di Italia e che ha mostrato un ritardo iniziale nella capacità laboratoriale, ha un rapporto tra persone positive e casi testati del 14%. L’Emilia-Romagna, terza, mostra una percentuale del 13%. Persino in Liguria, regione che nelle ultime settimane ha visto crescere più di altre il numero di contagi, il 15% dei casi testati risulta positivo al virus. È evidente che in Lombardia, nonostante sia stata la prima regione a individuare un focolaio sul suo territorio, non si riesce ad allargare lo screening in modo da individuare sempre meno casi positivi.

«Di sicuro il virus sta circolando ancora tanto, soprattutto in alcune province in Lombardia. La malattia da fase epidemica, siamo nella fase di coda, si sta portando a una condizione di endemia, ovvero di presenza e di diffusione», ha dichiarato l’epidemiologo Fabrizio Pregliasco, commentando il dato del 5 giugno relativo ai nuovi casi nella Regione: +402. Certo, nella stessa giornata sono stati processati 19.389 tamponi), ma il giorno precedente – il 4 giugno -, il numero di test analizzati si era fermato a soli 3.410.

A detta di virologi, epidemiologi, scienziati e politici, in Lombardia il virus circola ancora, e parecchio. Allora ridurre l’attività dei laboratori nei weekend o durante i giorni festivi, piuttosto che procedere a un piano di assunzioni e di rafforzamento della capacità diagnostica della regione, appare una scelta poco coraggiosa. O, perlomeno, in controtendenza con la regione che si è dimostrata davvero un’eccellenza in Italia, il Veneto: qui solo il 5% dei casi testati è risultato positivo al coronavirus.

Se è vero che, in un primo momento, più persone vengono sottoposte a tampone e più casi positivi si registrano, è altrettanto vero che la strategia nel lungo termine funziona. Testare, tracciare, trattare. Qualcuno ce l’ha fatta, qualcun altro si è arenato già alla prima T. «C’è troppa confusione nell’esecuzione e nella registrazione dei tamponi – dice il professor Andrea Crisanti, responsabile del Laboratorio di Microbiologia e Virologia dell’Azienda ospedaliera di Padova-, le decisioni prese in materia di riaperture non si basano su dati certi».

Professore, la Lombardia ha un alto rapporto tra casi testati e persone positive, è un problema per il monitoraggio dell’epidemia?

«Soffermarsi su un dato che riguarda anche la prima fase dell’epidemia non serve. Fermo restando che bisognerebbe testare più gente in Lombardia, i veri problemi relativi ai tamponi sono altri».

Ovvero?

«Ci sono tre domande alle quali nessuna Regione riesce a rispondere in maniera organica e ci sarebbe, invece, un bisogno incredibile di risposte: data del tampone, data del risultato di quel tampone e soggetto a cui è stato effettuato il tampone. Se non si possiedono questi dati, non capisco come si possano prendere decisioni sulla base del rischio. Qualcuno mi deve spiegare come si calcola l’indice Rt se i tamponi sono confusi, relativi a giorni diversi di prelievo e analisi. Non è possibile, in queste condizioni, avere un indice di rischio affidabile».

Perché serve sapere su chi è stato eseguito il test?

«Perché se si fanno i tamponi su una sottopopolazione, ad esempio i dipendenti sanitari, si ottiene un risultato condizionato dalla popolazione di studio. I sanitari si presume che utilizzino correttamente i dpi, e già questo influenza il dato».

È pericoloso decidere di riaprire o chiudere le regioni senza che le rispettive amministrazioni non siano in grado di fornire dati dettagliati sui tamponi?

«È rischioso. Rendiamoci conto che si prendono decisioni sulla base di un mix di test e relativi risultati che arrivano da giorni passati, possono essere vecchi anche di una settimana. Manca trasparenza da questo punto di vista».

L’ha stupita il dato lombardo del 5 giorno, +402 casi positivi?

«Il dato della Lombardia, ad oggi, è indecifrabile. Leggendo i bollettini, noi non possiamo sapere se i 402 casi sono tutti di ieri, oppure relativi a tamponi eseguiti una settimana fa e analizzati gli scorsi due, tre giorni. Non conoscere questi elementi non è solo una perdita per lo studio di questa epidemia: se i dati, quotidianamente, arrivano così confusi, nessuno può essere davvero consapevole di quello che decide, a ogni livello delle istituzioni».

Si è dato una spiegazione su questa approssimazione dei dati?

«Faccio fatica a capire perché non si faccia chiarezza su questa cosa e ho l’impressione, in generale, che stiamo abbassando troppo la guardia. Va bene che ci aiuta un po’ il caldo, ma la verità è che se il numero di casi di ieri si ripete anche nei prossimi giorni ci sarà da preoccuparsi. Anche perché, il 5 giugno, i tamponi sono aumentati del 30% rispetto al giorno precedente. I casi positivi sarebbero dovuti aumentare di una cinquantina di unità rispettando la proporzione. Invece siamo passati da 177 nuovi casi a 518 in 24 ore».

Come mai l’attività laboratoriale continua a diminuire nei weekend e nelle festività? Non sarebbe il caso di aumentare il numero di test?

«Mi creda, il personale sanitario è al limite della sopportazione, non si possono chiedere straordinari per sempre. Bisognerebbe assumere, ma non è così semplice. Noi, in bilancio, abbiamo l’assunzione di 6 nuove unità nel mio laboratorio. Non riusciamo a trovare nuovi dipendenti: mancano medici, infermieri e tecnici di laboratorio».

Leggi anche: