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Coronavirus e tempesta di citochine: lo studio preliminare del San Raffaele

19 Giugno 2020 - 07:34 Juanne Pili
Si chiama mavrilimumab e secondo i ricercatori potrebbe aiutarci a prevenire i casi gravi di Covid-19

Una terapia basata sull’anticorpo monoclonale umano mavrilimumab (studiato anche nel trattamento dell’artrite reumatoide), sembra mostrare risultati incoraggianti nei pazienti positivi al Covid-19. Lo rivelano in uno studio preliminare i ricercatori dell’Ospedale San Raffaele di Milano, la ricerca è apparsa il 16 giugno su The Lancet Rheumatology.

Sono stati coinvolti nella somministrazione endovenosa dell’anticorpo pazienti dai diciotto anni in su, positivi al Covid-19 e con gravi polmoniti. Contemporaneamente i ricercatori hanno monitorato anche dei pazienti con caratteristiche simili, ma senza ricevere il trattamento. Entrambi i gruppi erano sottoposti parallelamente alle cure standard.

Dai risultati sarebbe emerso un miglioramento nel decorso della malattia, consistente per esempio nella riduzione del tempo in cui i soggetti presentavano febbre, o necessitavano della ventilazione meccanica. Necessiteremo però di ulteriori studi, con test controllati, per capire se la somministrazione del mavrilimumab ha una rilevante efficacia.

Secondo i ricercatori guidati dal professor Lorenzo Dagna, i risultati «sono molto incoraggianti: nei pazienti trattati con Mavrilimumab, dopo 28 giorni si è registrato un miglioramento clinico nel 100% dei casi, rispetto al 65% del gruppo di controllo e un solo paziente ha avuto necessità, peraltro solo momentanea, di ventilazione meccanica, corrispondente all’8% dei trattati, rispetto al 35% dei pazienti del gruppo di controllo».

Perché è importante prevenire l’iperinfiammazione

Le forme gravi di Covid-19 sono caratterizzate spesso da insuficienza respiratoria, con ricovero in terapia intensiva o ventilazione meccanica. Si tratta di condizioni che possono portare anche al decesso del paziente. Il fenomeno che può portare a tutto questo è l’iperinfiammazione, dovuta alla famigerata «tempesta di citochine».  

«L’iperinfiammazione, con la sua eccessiva produzione di citochine – spiegano i ricercatori – è stata identificata come un fattore chiave di cattiva prognosi nei pazienti con polmonite grave correlata al COVID-19, che porta ad alte frequenze di insufficienza respiratoria e mortalità».

Sono studiati vari approcci per prevenirla, uno viene dal Regno Unito e consiste nel trattamento col corticosteroide desametasone, nell’ambito del progetto RECOVERY trial dell’Università di Oxford. All’istituto per i tumori Pascale di Napoli sarebbero emersi invece dati sulla possibile efficacia del Tocilizumab. Si tratta in generale del tentativo di prevenire o aiutare nei gravi decorsi della malattia – da abbinarsi ai trattamenti standard – non sono cure definitive.

Cos’è una tempesta di citochine

La tempesta di citochine è caratterizzata da un rilascio incontrollato di citochine, ovvero delle piccole proteine, soprattutto mediante le cellule del Sistema immunitario, le quali agiscono come parte delle sue difese alle infezioni. Può succedere, in casi particolari, che questo rilascio avvenga improvvisamente e in grandi quantità, danneggiando l’organismo.

Quando SARS-CoV2 entra nei polmoni attira l’attenzione delle cellule immunitarie, come i macrofagi, generando le condizioni per un possibile rilascio eccessivo e incontrollato di queste proteine. La tempesta di citochine è un fenomeno già noto nelle malattie respiratorie con decorsi gravi, quali la Sars, la Mers, l’aviaria H5N1 e l’influenza. Questo potrebbe spiegare forse, come mai molte persone hanno sintomi lievi e altre più gravi. 

L’ideale sarebbe quindi studiare delle strategie per prevenire questa iperattivazione. Ma se il concetto generale del fenomeno è noto, non è ancora chiaro perché avviene in alcuni pazienti e in molti altri no.

Il ruolo dei Colony-stimulating factors (CSFs)

Sappiamo che esistono dei Colony-stimulating factors (CSFs), i quali stimolano le colonie di granulociti-macrofagi (GM-CSF). I meccanismi che generano sono stati associati a infiammazioni legate alle citochine.

I ricercatori del San Raffaele partono proprio dal ruolo di amplificatori dei CSFs, i quali incrementano il numero di macrofagi, a loro volta associati a un aumento delle citochine in un dato sito di infiammazione.

«Ci siamo concentrati nell’esaminare se il mavrilimumab – continuano gli autori – anticorpo monoclonale umano che prende di mira il recettore alfa del fattore stimolante le colonie di granulociti-macrofagi, aggiunto alla gestione standard, migliori gli esiti clinici nei pazienti con polmonite COVID-19 e iperinfiammazione sistemica … Abbiamo ipotizzato che il blocco del segnale del fattore stimolante le colonie granulociti-macrofagi (GM-CSF) al recettore – continuano gli autori – offrirebbe benefici terapeutici oltre allo standard di cura».

Limiti dello studio

La ricerca del San Raffaele presenta dati preliminari che suggeriscono un effettivo miglioramento nelle condizioni dei pazienti, rispetto a quelli del gruppo di controllo, sottoposti ai soli trattamenti standard. Se confermati da nuovi studi con test controllati, questi risultati rappresenterebbero, secondo i ricercatori, una prima evidenza dell’effetto terapeutico di una inibizione dei GM-CSF, come già si ipotizzava in precedenti ricerche.

«Il mavrilimumab ha mostrato efficacia e sicurezza in numerosi studi randomizzati di fase 1 e fase 2 in pazienti con artrite reumatoide», spiegano i ricercatori. Tuttavia i risultati devono tener conto di diversi limiti dovuti all’emergenza sanitaria, che hanno impedito una randomizzazione, con «rischi di parzialità di selezione», sia nel trattamento che nella valutazione dell’effetto placebo.

Così non sono da escludere altre variabili non viste, che possono aver giocato un ruolo nel decorso dei pazienti, a prescindere della presenza o meno del mavrilimumab.

I 28 giorni in cui è avvenuto il monitoraggio sono inoltre relativamente brevi, non permettono infatti una valutazione esaustiva di efficacia e sicurezza nel lungo termine. È comunque notevole che si sia potuta sperimentare una strategia terapeutica così innovativa, considerate le condizioni dettate dalla pandemia in atto.

«Sebbene questi risultati iniziali debbano essere confermati in successivi studi controllati con placebo – spiegano gli autori –  lo smorzamento dell’iperinfiammazione con mavrilimumab sembra avere il potenziale per essere benefico per COVID-19». Staremo a vedere.

Foto di copertina: UniSR | Veduta del complesso del San Raffaele di Milano.

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