Il Consiglio d’Europa boccia l’Italia: «Sta violando la parità delle donne sul lavoro. La politica deve fare di più»

Secondo l’organizzazione internazionale, i governi italiani non hanno fatto abbastanza per rimediare a un contesto in cui le donne trovano lavoro con meno facilità e guadagnano meno degli uomini. Promossa solo la Svezia

«L’Italia non ha rispettato l’obbligo di adottare misure per promuovere il diritto alle pari opportunità delle donne nel mercato del lavoro». A dirlo è il Comitato europeo dei diritti sociali (Ceds) del Consiglio d’Europa, un’organizzazione internazionale che promuove i diritti umani, non facente parte dell’Unione europea, anche se conta 27 Stati Ue tra i suoi membri. Un rimprovero che non ha un valore legale, ma che denuncia grandi ritardi del paese sul fronte dell’uguaglianza di genere. Alcuni progressi ci sono stati. Per esempio, grazie alla legge Golfo-Mosca sulla parità di genere nei Cda delle società quotate, la presenza delle donne nei consigli di amministrazione è andata aumentando negli anni, raggiungendo la quota del 36,4% nel 2019. Eppure, sono meno le donne a ricoprire posizioni apicali in Italia – il Parlamento è uno specchio del Paese in questo senso – e, generalmente, le donne guadagnano di meno degli uomini e trovano lavoro meno facilmente. Certamente, non si tratta di un problema solo italiano. Dei paesi presi in esame dal comitato oltre all’Italia – Belgio, Bulgaria, Cipro, Croazia, Finlandia, Francia, Grecia, Irlanda, Norvegia, Paesi Bassi, Portogallo, Repubblica Ceca, Slovenia e Svezia – solo la Svezia risulta promossa. Si tratta di un problema sistematico che richiede una soluzione di sistema, dunque. Secondo Marija Pejcinovic Buric, segretario generale del Consiglio d’Europa, sta alla politica infatti risolvere quello che «continua a rappresentare uno dei principali ostacoli al conseguimento di una reale uguaglianza nelle società moderne».


Il gender pay gap in Italia. Cosa dicono i dati Istat

Ma quanto ha di vero il parere del Consiglio d’Europa? Stando a un recente rapporto dell’Istat del febbraio 2020, in Italia le donne soffrono di vari svantaggi sul lavoro rispetto agli uomini, dal tasso di occupazione alla precarietà sul lavoro passando appunto per il divario salariale. Nel 2017 il Gender Pay Gap (GPG) – ovvero la differenza tra la retribuzione di uomini e donne a parità di ruolo e di mansioni – per i paesi membri dell’Ue segnalava che le retribuzioni femminili erano in media del 16,0% inferiori a quelle degli uomini. L’Italia, in realtà, figurava tra i paesi europei con il GPG più basso, pari nel 2017 al 5%. Nel settore privato, però, il GPG italiano è pari a 20,7%, maggiore rispetto alla media europea. Guardando ai redditi complessivi guadagnati, nel 2017 quelli delle donne italiane sono in media del 25% inferiori a quelli dei maschi (15.373 euro rispetto a 20.453 euro). Il divario cresce ulteriormente nella fascia di età over 45, passando dal 28,5% tra i 45 e i 54 anni al 26,% per gli over 55. Anche se il tasso d’occupazione femminile risulta più basso nel Mezzogiorno rispetto al Nord, il divario salariale è più grande nelle regioni del Nord-ovest (27,5%) e del Nord-est (28,3%).


In generale, il divario di genere – ovvero il rapporto tra il tasso di occupazione femminile e quello maschile – si è più che dimezzato negli ultimi decenni, passando dal 41,1% del 1977 al 18,1% del 2018. Ma, come evidenzia il dato, le donne tuttora partecipano al mondo del lavoro in un numero minore rispetto agli uomini: nel 2018 il 49,5% delle donne in età lavorativa risultava occupato (nel Mezzogiorno il numero è più basso: 32,2%). Si tratta infatti di un divario superiore alla media europea (circa 18 punti rispetto a una media europea di 10). Questo nonostante le donne vantino generalmente un livello di istruzione più alto. Per esempio, le donne rappresentano il 54% dei dottori di ricerca. Eppure, tra queste – su un totale di mille prese in considerazione – soltanto il 41,6% ha un contratto a tempo indeterminato, circa il 7% in meno rispetto agli uomini che hanno ottenuto la stessa qualifica. Insomma, specializzarsi non sempre dà i suoi frutti in Italia, soprattutto se a farlo è una donna.

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