Duecentomila italiani in meno nel 2020 rispetto all’anno precedente. I numeri del Bilancio demografico nazionale 2019 dell’Istat certificano una emorragia che non accenna né a diminuire né a rallentare. Negli ultimi cinque anni i residenti nel nostro Paese sono diminuiti di 551mila unità. Un dato che preoccupa e che scaturisce da diversi fattori. In primo luogo c’è l’annoso problema della denatalità, con un -4,5% delle nascite e un lieve aumento dei decessi. Ma poi c’è un altro elemento che contribuisce a questo scenario, sempre presente nella storia del nostro Paese e, per certi versi, caratteristico: l’emigrazione. L’Istat certifica un fenomeno in aumento, rispetto all’anno precedente, del +8,1%.
Gli italiani all’estero, una panoramica
Ma quanti sono gli italiani all’estero? E soprattutto: dove sono? Per disegnare un quadro della situazione ci viene incontro l’ultimo rapporto della Fondazione Migrantes. Secondo il documento nel 2019 erano circa 5,3 milioni gli iscritti all’Aire (Anagrafe Italiani Residenti all’Estero), coloro cioè che hanno segnalato di vivere fuori dall’Italia. Sono l’8,8% della popolazione residente totale che, segnala l’Istat, a fine dicembre 2019 ammontava a 60.244.639 unità, quasi 189 mila in meno rispetto all’inizio dell’anno. L’attuale mobilità italiana, segnala la Fondazione, continua a interessare prevalentemente i giovani (18-34 anni, 40,6%).
Sull’origine degli emigrati il report indica che 950mila provengono dal Nord Ovest del Paese, 928mila dal Nord Est, 828mila dal Centro, circa 1 milione e 700mila dal Sud, 888mila dalle isole. La top ten delle comunità all’estero vede in testa l’Argentina (842.615), seguita dalla Germania (764.183), poi la Svizzera (623.003), al quarto posto il Brasile (447.067), seguito da Francia (422.087), Regno Unito (327.315), Stati Uniti d’America (272.246), Belgio (271.919), Spagna (179.546), Australia (148.510).
Negli ultimi 10 anni via 250mila giovani: le ricadute economiche
Le mete preferite dai giovani che negli ultimi anni hanno scelto di andare via dall’Italia sono il Regno Unito, la Germania, la Svizzera, la Francia, gli Stati Uniti. Il nono Rapporto annuale sull’economia dell’immigrazione della Fondazione Leone Moressa, presentato nell’ottobre scorso, segnala che negli ultimi 10 anni circa 250mila giovani, tra i 15 e i 34 anni, hanno deciso di lasciare l’Italia. Il che non rappresenta un problema solo demografico o sociale, ma anche economico. Perché questa “fuga” all’estero, alla ricerca di opportunità che l’Italia non offre, si stima sia costata circa 16 miliardi di euro, quasi un punto di Pil. Si tratta del valore aggiunto che questi ragazzi avrebbero potuto offrire al nostro Paese, se questo si fosse dimostrato attrattivo e capace di valorizzarli.
Storie di chi ha scelto la Germania
Tra le migliaia di storie di emigrazione c’è quella di Andrea, 31 anni, siciliano, che ha scelto Monaco, in Germania, insieme alla moglie Aurora (29). «Vivo qui da più di cinque anni – racconta -, mia moglie da otto. Lei si era trasferita per frequentare la specialistica in fisica, mentre io sono ingegnere meccanico. Sono venuto qui per cercare lavoro, l’ho trovato da quasi quattro anni».
Ma come si fa ad inserirsi, da zero, in un Paese con cultura, valori e lingua diversi? «Se non conosci il tedesco è difficile trovare lavoro – spiega Andrea a Open -. Come prima cosa ho deciso di imparare questa lingua da zero, e poi iniziare a cercare un impiego. La cosa molto bella è che per questo ci sono dei corsi tenuti dallo Stato della Baviera. Ti insegnano a scrivere un Cv e una lettera di presentazione come vogliono loro. Tra l’altro già nelle scuole superiori organizzano dei corsi in questo senso». Ma non solo, le autorità bavaresi sono molto attente all’inserimento culturale dell’immigrato, come Andrea spiega: «Per introdurmi nella società tedesca, attraverso un programma, ogni due settimane mi chiamavano per invitarmi a degli eventi culturali qui a Monaco. Davano sempre un biglietto gratuito per me e Aurora, e ho visto eventi musicali e teatrali».
E sembra proprio che il sistema dell’invio del Cv, routine quasi inutile e frustrante in Italia, in Germania funzioni meglio: «Ho trovato lavoro inviando curriculum e lettere di presentazione, come mi hanno insegnato. E sul lavoro qui la mentalità è diversa. Prima di tutto non c’è lo “scusa puoi fare lavorare mio figlio?”. Poi qui non conta quanto tempo lavori, conta il risultato. Non fa più carriera quello che lavora di più, ma quello che dà più risultati. Non gliene importa qui a che ora inizi e a che ora finisci, l’importante è che finisci ciò che devi fare».
Anche Marco, 29 anni, originario di Verona e a Monaco da quattro anni, ha raccontato a Open di quanto sia importante imparare rapidamente la lingua: «Sono un educatore, lavoro dal 2017 in asili integrati, strutture all’interno delle quali sono presenti sia gruppi di età del nido che gruppi della scuola dell’infanzia». «Al mio arrivo il mio tedesco era nullo – racconta -, mentre scrivevo la tesi (Marco si è comunque laureato in Italia, all’università di Verona ndr) ho fatto corsi di lingua per incrementarlo. La sera invece lavoravo come cameriere».
«La Baviera è una regione molto ricca. Ci sono molte opportunità è c’è tantissima richiesta di educatori – spiega -. Per quanto ho potuto appurare dalla mia esperienza, la Germania ha più fiducia nei giovani. Il tirocinio, ad esempio, è concepito come preparazione al successivo incarico di lavoro». E aggiunge: «Non ho ancora conosciuto nessuno qui che abbia fatto un tirocinio in azienda e al quale non sia stato proposto, successivamente, un posto di lavoro. La formazione è considerata molto importante. Le aziende incentivano i dipendenti a frequentare dei corsi alla fine dei quali si riceve un attestato. E questi attestati sono richiesti e altamente valutati nel processo di selezione del personale». Insomma quello che sembra emergere è un quadro dove c’è poco spazio per gli stage da fotocopie.
Denatalità e genitorialità, due facce della stessa medaglia
Ma com’è, per dei giovani, essere genitori e lavoratori in Germania? Il tema è molto attuale in Italia, visto proprio il problema della denatalità. Torniamo ad Andrea, che insieme ad Aurora ha una bimba di pochi mesi, nata in Germania. Ci spiega: «Madre e padre hanno, in totale, 14 mesi di maternità/paternità, con il 67% dello stipendio. Noi abbiamo deciso di prendere 11 mesi per Aurora e 3 per me. Essere genitori qui è molto ben visto. Lo stato paga 205 euro al mese per ogni figlio fino ai 18 anni, fino ai 25 qualora tuo figlio/a andasse all’università. Ma non solo. Lo Stato della Baviera dà, dal secondo al terzo anno, ulteriori 300 euro al mese».
Londra, la nuova “El dorado”. Ma con la Brexit?
Germania ma, come detto, non solo. Altra grande meta negli ultimi anni per i giovani italiani in “fuga” è stato il Regno Unito, particolarmente l’Inghilterra e la sua Londra. Una sorta di “El dorado” che, nonostante la Brexit in vista, continua a essere attrattiva, tanto che dopo il referendum del 2016 sull’uscita dall’Ue il flusso di giovani oltremanica non sembra essere diminuito. In effetti nei prossimi mesi non cambierà molto per gli italiani attualmente in Gran Bretagna (e per quelli che ci vogliono ancora andare).
Fino al 31 dicembre 2020 chi risiede nel Regno Unito da almeno cinque anni potrà registrarsi e ottenere il “settled status”, ovvero il diritto di residenza. Chi invece arriverà prima di quella data potrà richiedere il “pre-settled status”, cioè il diritto a restare nel Regno Unito fino a quando avrà maturato i cinque anni necessari a ottenere lo status definitivo.
Discorso diverso, invece, per chi vorrà emigrare dopo il 2020, perché sarà più complicato. Il governo inglese ha infatti annunciato un sistema a punteggio simile a quello australiano, per farla breve: sarà molto difficile il «vado a Londra a fare il cameriere e imparo la lingua». Per emigrare nel Regno Unito ci vorranno qualifiche, titoli di studio. Più lavoratori qualificati quindi e meno manodopera straniera.
Non solo titoli, ma anche esperienza…
Ma, oltre ai titoli, gli inglesi cercano esperienza, come racconta Cristiana a Open, 28 anni, originaria di Roma e a Londra da cinque anni: «Ai datori di lavoro importava poco dei miei “pezzi di carta” quali laurea, certificati, corsi, attestati, voti massimi. Ricordo ancora che la professoressa che mi dava una mano con le prime applications continuava a chiedermi: “Right, but what did you do, practically?».
Cristiana, che lavora per un’agenzia internazionale di pubbliche relazioni, racconta del perché abbia deciso di lasciare l’Italia: «Durante il terzo anno della triennale in Scienze umanistiche mi sono resa conto che la carriera giornalistica non sarebbe stata molto accessibile, e avrebbe richiesto un percorso molto lungo, di cui vagamente riuscivo a vederne la fine. L’alternativa sarebbe stato l’insegnamento, ma allora stava cominciando il vortice amministrativo di regolamentazioni e bandi che praticamente cambiavano i requisiti e le aspettative. Avrei dovuto ripiegare su una laurea magistrale – prosegue – con interesse tangente, fuori Roma, nella speranza che sarei riuscita ad aprirmi qualche spiraglio per un posto in uno dei master in giro per l’Italia anni dopo. Oppure provare uno dei master in Inghilterra. Fino ad allora non avevo fatto alcuna esperienza vera all’estero. La formazione umana e scolastica acquisita fuori casa mi avrebbe sicuramente rianimato al ritorno in Italia. O comunque chiarito sulla mia carriera futura e dato un titolo di studio “con una marcia in più”, qualunque percorso professionale avessi voluto fare tornata in patria».
Ma finora, in patria, Cristiana non è tornata ed ha anche fatto domanda per il “settled status”, senza avere particolari problemi, anche se ammette che subito dopo il voto per la Brexit la situazione era all’inizio molto strana: «Non tutti sembravano più così sorridenti appena identificavano l’inflessione italiana. E qualche mese dopo mi son trovata a dover cambiare lavoro, ed ho trovato qualche (pochi, per fortuna) annuncio che specificava: UK residents/British nationality holders only». Insomma, tutto il mondo è Paese.
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