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«Per tornare a vincere Salvini deve cambiare comunicazione. Renzi? Mai decisivo» – L’analisi del voto

22 Settembre 2020 - 21:28 Felice Florio
«Mai come questa volta gli italiani hanno scelto la tranquillità. E’ un altro degli effetti del Covid», spiega Martina Carone, consulente in comunicazione per Quorum – YouTrend e docente di analisi dei media all’Università di Padova

La partita delle elezioni regionali tra centrodestra e centrosinistra è finita 3 a 3. Un pareggio che, a seconda delle interpretazioni di una o dell’altra parte, acquista il sapore della vittoria, della tenuta onorevole, del ribaltamento delle aspettative. Zaia e Toti riconfermano il loro posto da governatori nel Veneto e in Liguria, Emiliano e De Luca in Puglia e Campania. Giani eredita la presidenza della Toscana dal compagno di partito Rossi e le Marche passano dall’altro lato della barricata, eleggendo Acquaroli di Fratelli d’Italia.

Un pareggio, appunto, che al contrario di quanto affermino i leader politici, artificiosamente entusiasti, impone una serie di riflessioni su cosa non abbia funzionato, tanto a destra quanto a sinistra. «Senz’altro questo election day blinda il governo Conte e allontana l’ipotesi di una fine anticipata della legislatura», sostiene Martina Carone, consulente in comunicazione per Quorum – YouTrend e docente di Analisi dei media all’università di Padova.

Il governo ne esce più forte, nonostante la debacle grillina e di Renzi?

«Sì, sono state giornate campali per il destino dell’esecutivo, da una parte perché il voto del referendum spinge i parlamentari a non avere voglia di tornare al voto. Ed era l’intento tacito di molti esponenti della maggioranza, considerando anche l’elezione del presidente della Repubblica. Dall’altra parte, visto che il centrodestra non ha avuto il risultato che si aspettava alle regionali e si è riscoperto più fragile, anche i tentativi dell’opposizione di sfiduciare il governo perderanno credibilità».

Certo che, però, a livello territoriale l’alleanza giallorossa non ha portato grandi risultati.

«Vero. Il governo è blindato ma non ne esce benissimo. Il Partito democratico e i 5 stelle, dove si sono uniti, sono andati molto male. Anche se la legislatura avrà scadenza naturale, non è un buon segnale a livello politico e le anime del governo dovranno farci i conti».

Le percentuali bassissime dei grillini alle regionali sono un punto di non ritorno per il Movimento?

«Il Movimento 5 stelle, avendo subodorato che le amministrative, come storicamente accade nelle elezioni dove si richiede la presenza sul territorio una classe dirigente, non sarebbero andate bene, ha evitato di dare alle regionali una lettura politica, non legando l’esistenza del governo al voto. Ma soprattutto, i grillini si sono concentrati sul referendum, battaglia che hanno stravinto.

I 5 stelle godranno del fatto di essere riusciti a mobilitare gli elettori sul referendum perché i suoi elettori, secondo le rilevazioni Tecné per Mediaset, hanno votato per il 92% il “sì”. Il Partito democratico non può fregiarsi di questo dividendo politico: solo il 45% del suo elettorato ha votato per il “sì”. Cosa significa? che meno della metà dell’elettorato ha seguito la direzione data dal segretario».

Chi esce più malridotto da questa tornata elettorale?

«Il grande sconfitto dell’election day è il centrodestra. Ha fatto l’errore di alzare terribilmente le aspettative. Salvini aveva parlato di un 7 a 0. Poi, trovarsi ad affermare che un 3 a 3 che è un ottimo risultato non deve essere facile a livello politico. Ad ogni modo, ne esce sconfitta anche Italia Viva che sperava, finalmente, di affermarsi in un’elezione, soprattutto in Toscana, invece neppure lì i suoi voti sono stati indispensabili. Ecco, i due Mattei non hanno motivo di sorridere».

Qual è stata la peculiarità di queste amministrative?

«Queste elezioni hanno premiato i governatori uscenti. Un elemento particolarissimo perché i tassi di riconferma degli uscenti si erano abbassati drasticamente negli ultimi anni. Probabilmente è anche uno degli effetti del Covid: i cittadini hanno dimostrato minore propensione al rischio e al cambiamento, dando fiducia a chi ha gestito l’emergenza sanitaria».

Il Partito democratico può esultare per aver vinto in tre regioni?

«Se il centrosinistra pensa di fermare l’avanzata della destra con delle figure che non sono proprio i, per così dire, comunisti a cui eravamo abituati, mi riferisco a De Luca e a Emiliano, con un taglio decisionista e incursioni anche di persone di destra nelle liste pugliesi, si sbaglia di grosso: a lungo andare dovrà trovare un’identità propria, non può appoggiarsi a questi personaggi per sempre. E anche Giani è, di fatto, espressione della volontà di Renzi, non di Zingaretti. La segreteria del Pd deve porsi più di una domanda dopo queste elezioni, di certo non può rilassarsi».

Eppure mantenere il governo di Toscana e Puglia, verso la fine della campagna elettorale e dopo i primi exit poll, sembrava un’impresa.

«Fermare la destra, cercando di non perdere le regioni rosse, non è una strategia a lungo termine. Queste elezioni hanno generato più domande che certezze. I 5 stelle hanno rivelato un problema di leadership e di mancanza di amministrazione del territorio. In alcune regioni, nemmeno i candidati presidenti grillini entreranno in consiglio. Il Partito democratico, invece, è riuscito nell’intento dichiarato di fermare l’invasione dei barbari di destra, per citare le loro campagne, ma ce l’ha fatta attraverso candidati che non sono espressione diretta di Zingaretti.

Ovviamente anche La Lega dovrà riconsiderare il fatto di poter essere un partito che va da Lecce a Bolzano: al Sud Salvini è crollato. E non dimentichiamoci che la manifestazione di intenti del segretario del Carroccio era quella di prendere la Toscana. Si è speso tantissimo per Ceccardi, ma ha fallito».

Ci sarà qualcuno che potrà dirsi vincitore della tornata.

«Meloni è la vincente. Subito dopo lo spoglio, ha dichiarato che Fratelli d’Italia è l’unico partito in crescita nel Paese. Ovvio che si tratta di una considerazione imprecisa, perché le liste dei candidati presidenti al loro interno hanno realtà esterne al partito e il risultato non può essere comparabile con quello nazionale. Però, l’unica regione strappata al centrosinistra, le Marche, ha come governatore un fedelissimo della Meloni».

Qual è il limite di Salvini che, solo un anno fa, sembrava inarrestabile?

«Il suo presenzialismo in due regioni che hanno una tradizione storica di centrosinistra ha spinto chi lo avversa a recarsi alle urne, a mobilitarsi. La presenza costante nel proprio territorio del leghista ha risvegliato le coscienze dei timidi di sinistra. Come ha già detto Agnoletti – esperto di comunicazione politica dell’area di sinistra -, in Toscana, come a gennaio è successo in Emilia-Romagna, è stato lo spettro della sconfitta la marcia in più per non perdere le elezioni.

Sì, la paura ha aiutato il centrosinistra. Tornando a Salvini, credo che non riesca più a gestire l’enorme notorietà: è diventato così divisivo da riuscire a mobilitare chi gli è contro. Anche lui deve fare una riflessione personale, non sulla leadership – benché il successo personale di Zaia, in Veneto, lo spaventi -, ma sulla sua modalità di comunicazione violenta e politicamente scorretta. Sembra che non stia funzionando più».

Cos’è cambiato da quando, alle europee di maggio 2019, la sua Lega riuscì a superare da sola la soglia del 30%?

«In questa fase di incertezza sul futuro, con una pandemia che è tutt’altro che risolta, le persone hanno riscoperto l’importanza della rassicurazione, non dello scontro politico. Il cambiamento, oggi, fa paura, ed è un altro elemento che ha contribuito a far rieleggere i governatori uscenti».

Come considera invece il risultato di Italia Viva? In Toscana, ad esempio, non è stata determinante per la vittoria di Giani.

«La mancanza di agganci sul territorio, elemento che è valso sia per Italia Viva sia per i 5 stelle, ha contribuito a questo risultato deludente. Le elezioni amministrative sono tremendamente legate alle persone che si candidano, non agli ideali: è più facile dare un voto alla persona che fa politica da tempo ed è riconosciuta come amministratore locale che a un partito. Poi si deve puntare sulla mobilitazione, sul cercare l’elettorato porta a porta: senza sedi territoriali, senza classe dirigente locale, è difficile riuscire a convincere l’elettorato».

Come si spiega, dopo 25 anni, il passaggio delle Marche dal centrosinistra al centrodestra?

«Mangialardi non riusciva a entusiasmare l’elettorato del centrosinistra, forse i Dem hanno scelto di non lottare veramente per mantenere il controllo della regione, dando per certa una sconfitta in partenza. E comunque, le Marche non sono andate non al centrodestra, ma a un candidato di Fratelli d’Italia, che è una cosa diversa: non stiamo parlando di un moderato liberale, ma di una persona che aveva partecipato a una cena nostalgica del fascismo. Se ha potuto vincere lui, è evidente che l’elettorato marchigiano già da tempo aveva smesso di seguire il centrosinistra».

Come mai la stessa operazione non è riuscita in Puglia? Anche Fitto era un candidato di Giorgia Meloni e l’elettorato pugliese sembrava stanco del governo di Emiliano.

«È vero che Fitto, per quanto abbia un approccio più moderato rispetto ad Acquaroli, era espressione diretta di Giorgia Meloni. Il motivo principale per cui Emiliano è riuscito a battere Fitto io lo vedo nelle 15 liste che gli hanno portato tantissime preferenze. Con una disparità di liste, 15 contro 5, è stato più facile del previsto per Emiliano».

Tornando a Italia Viva, è il momento per Renzi di pensare a un ritorno nei Dem?

«Non ci sono e non ci saranno mai le condizioni per far rientrare Renzi nel Partito democratico. Anche perché, una scelta del genere, non verrebbe premiata politicamente dall’elettorato che pare aver sviluppato un’antipatia irreversibile nei suoi confronti. Poi c’è un altro tema: Renzi continua, quando parla in pubblico, a evocare i tempi in cui lui era presidente del Consiglio, ed è una cosa estremamente ingombrante all’interno di un partito. Detto ciò, anche per Italia Viva, benché sia passato un solo anno dalla fondazione, è il momento di incontrarsi e rivedere delle scelte. Il primo a capire cosa voglia fare da grande deve essere proprio Renzi».

Se lo immagina un nuovo polo di centro in cui conflusica Italia Viva, Azione di Calenda, gli scontenti di Forza Italia e forse +Europa?

«Non sarebbe una scelta vincente. L’Italia deve fare i conti con il fatto di essere un Paese populista: premia i leader che hanno questo tipo di approccio. E con populista, non mi riferisco solo a Matteo Salvini: anche chiamare l’elettorato al voto per fermare l’orda dei barbari di destra è un discorso populista. Detto ciò, una proposta politica pacata, liberale, di centro, non attrae più».

Non abbiamo parlato del fenomeno De Luca: vittoria scontata?

«Qualche mese fa c’era chi metteva in dubbio De Luca: dicevano che non si sarebbe dovuto candidare perché non poteva vincere. Invece ha triplicato Caldoro in termini di consenso. Il Movimento 5 stelle, che puntava ad ampliare i consensi proprio nelle regioni del Sud, è andato malissimo. De Luca è stato premiato dal fatto di essere una figura poco ancorata ai valori storici del partito. Anche lui non è espressione di Nicola Zingaretti. De Luca ha creato un personaggio che ai campani piace tantissimo: decisionista, estremamente ironico, piaceva troppo per non essere riconfermato».

Hanno vinto uomini lontani da Zingaretti: rischia il ruolo di segretario del Pd?

«No, la sua segreteria viene comunque blindata perché, di fatto, il Pd ha superato le aspettative della vigilia. Ma Zingaretti deve mettersi a pensare a come gestire il partito: perché la sinistra, oggi, vince solo con grazie a queste figure trasversali e divisive. Il centrosinistra, e il Pd, devono compiere uno scatto verso un nuovo modo di comunicare».

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