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Nicola Lagioia e il libro sull’omicidio Varani: «Roma è una droga, io un tossico e quei due assassini a loro insaputa» – L’intervista

13 Dicembre 2020 - 08:50 Serena Danna
L’autore di «La Città dei Vivi» racconta a Open uno degli omicidi più crudeli e incomprensibili degli ultimi anni. E spiega perché quel delitto dice qualcosa dei ventenni e trentenni di oggi

Il 6 marzo del 2016 Luca Varani, 23 anni, garzone nell’officina di un meccanico nella periferia di Roma Nord, viene ammazzato in un appartamento del Collatino dopo ore di torture. I killer sono Marco Prato, 26 anni, un pr di buona famiglia molto conosciuto negli ambienti delle feste romane, e Manuel Foffo, 27 anni, che lavora saltuariamente nel ristorante di famiglia sognando di fare i soldi su internet. I due avevano trascorso due giorni chiusi in casa abusando di droghe, alcol e giochi sessuali. Prato muore suicida in carcere il giorno prima dell’inizio del processo, Foffo viene condannato all’ergastolo: omicidio volontario con l’aggravante della crudeltà. 

A quello che resta uno degli episodi di cronaca nera più inquietanti della recente storia italiana lo scrittore Nicola Lagioia, Premio Strega 2015 con La Ferocia e direttore del Salone del libro di Torino, ha scelto di dedicare il suo ultimo libro, La Città dei vivi (Einaudi).

La città dei vivi è un libro che, in alcuni punti, fa male leggere. Come ha fatto a scriverlo? 

«Ho vissuto questo libro come un compito, qualcosa che mi apparteneva e di cui dovevo per forza occuparmi. Mi ero trasformato in un prisma attraverso cui passava tutto quello che riguardava l’omicidio. Andavo in giro per Roma alla ricerca di chiunque potesse avere un collegamento con i protagonisti di quel fatto: domandavo, cercavo, attaccavo bottone con tutti con l’unico scopo di trovare una traccia che mi conducesse più vicino all’appartamento di Foffo. Mi sentivo così immerso in quella dimensione che avevo il coraggio di andare in posti dove non sarei mai andato, di fare domande che per timidezza non avrei mai fatto. Ricordo che un giorno un carabiniere, vedendomi entrare per l’ennesima volta in udienza, mi disse: “Embé? Dopo sei mesi ancora non l’hai scritto ‘sto libro?”».

La copertina di La Città dei Vivi (Einaudi, pp.472, 22 euro)

Come mai sentiva l’esigenza di raccontare a tutti che stava scrivendo un libro sull’omicidio Varani? 

«Da un lato perché era utile. Nonostante i tre milioni di abitanti,  Roma è una città talmente permeabile che – volendo – puoi conoscere tutti. Se parli in giro di una cosa, è facile che quella cosa poi ti venga a cercare. A differenza di altre città, a Roma ci sono tantissime probabilità di trovare qualcuno che dica: “Ci sta un amico mio che è amico di Marco Prato”. E in un attimo hai il numero di telefono.

Ricordo un episodio dal dentista. Ora, è noto che durante la pulizia dei denti sia difficile parlare, ma io non riesco a contenermi nemmeno in quell’occasione, e quindi comincio a raccontare del libro. Dopo un po’, l’assistente del dottore mi blocca per dirmi che conosceva la famiglia della vittima perché abitava nello stesso quartiere, e che aveva visto i carabinieri arrivare a casa Varani il giorno dell’omicidio».

Cosa l’ha spinta a occuparsi del caso?

«L’omicidio Varani mi aveva incuriosito per la strana natura dell’omicidio. Non è un delitto consumato nell’ambito della criminalità organizzata e non segue neanche le dinamiche del classico delitto borghese. Prendiamo il massacro del Circeo. In quel caso, gli autori erano ben determinati nella gestione del male: avevano scelto e pianificato tutto. Qui la motivazione non c’era, non è stato possibile neanche per le forze dell’ordine identificare le ragioni che hanno spinto i due a commettere un crimine così crudele.

Prato e Foffo sono quasi “assassini a loro insaputa”. Pensi alla confessione di Foffo al padre: avviene in auto mentre stanno andando al funerale dello zio, anche qua soltanto la realtà può concedersi questi lussi di inverosimiglianza. Il papà è sconcertato, all’inizio non ci crede. La prima cosa che chiede al figlio è: “Ma chi è che avete ammazzato?”. E il figlio risponde: “Non lo so”. Ed è vero. Sia lui che Marco Prato hanno una grandissima difficoltà ad assumersi la colpa di quello che hanno fatto, anche se sono in grado di descrivere tutto nei dettagli: le martellate, le coltellate. 

È come se in loro i concetti di colpa, di assunzione di responsabilità e di libero arbitrio fossero fallati, spaccati, crollati. Sono alcuni dei principi fondamentali su cui si basa l’uomo moderno per come l’abbiamo conosciuto, ma non valgono per Foffo e Prato».

Perché?

«I due hanno una difficoltà estrema a distogliersi da loro stessi. Foffo e Prato sono dispiaciuti per la morte di Luca Varani, ma non sono in grado di interiorizzare davvero il dispiacere perché non sono capaci di spostare l’attenzione fuori da loro stessi».

Quindi ammazzano un ragazzo per narcisismo?

«Come ci differenziamo noi? Guardando gli altri. Se ci guardassimo sempre allo specchio, non sapremmo chi siamo. Io costruisco la mia identità trovando negli altri parti che riconosco e differenze. Ma se questa operazione non riesci a farla, se non sei in grado di distoglierti da te stesso, il risultato è un’identità veramente debole. E allora puoi anche stare sopra le righe ed essere molto intelligente e manipolativo come Marco Prato, ma non sarà sufficiente. Per spiegare i suoi comportamenti, Prato parla di “vuoti affettivi” ma io credo, invece, che dipendano principalmente da due fattori: un’identità debole e il peso del giudizio degli altri. Tanto è vero che nel suo bigliettino di addio dice che si uccide perché non riesce a sopportare la pressione mediatica. Foffo, da parte sua, è ossessionato dal fatto che gli altri possano pensare che è gay. È la cosa che ripete in continuazione e che lo fa soffrire tantissimo. Poi c’è l’altra faccenda – ovvero che ha ammazzato una persona – ma le due cose spesso si confondono in lui come non dovrebbero». 

Il tema dell’omosessualità vissuta come problema torna spesso nel libro. Come spiega che in una generazione in cui i concetti di genere e sessualità dovrebbe essere molto più fluidi rispetto al passato permanga questa visione?

«Nonostante  i gay pride, le aperture della politica, il Papa che dice che ci vogliono le unioni civili per gli omosessuali, il pregiudizio è ancora fortissimo. Prato aveva fatto coming out a 15-16 anni. Crescendo, aveva cominciato a dire che non si riconosceva nel suo corpo, che voleva diventare donna. Allo stesso tempo però faceva palestra per sviluppare muscoli e pettorali – che sembra proprio l’opposto di chi dice di non riconoscersi nella propria fisicità».

Ancora una volta un conflitto di identità.

«Una situazione da cui non sapeva proprio come uscire e che gli dava un’immensa sofferenza. Ma è anche tutto il mondo che gira intorno a lui a essere specchio dei tempi. Penso alla reazione di questi etero che hanno avuto una giornata di sesso con Marco Prato e ne escono devastati. Ho sentito racconti di uomini che arrivano dalle fidanzate piangendo e vomitando. Quelle – e qui c’è senza dubbio una maggiore saggezza delle ragazze –  rimangono colpite ma finiscono in fretta con il diventare la loro via di uscita dal dramma. Sono proprio le compagne a rassicurarli con frasi come “Ok però non è che stai morendo” oppure “Non vuol dire per forza che hai smesso di essere eterosessuale”. 

Io sono etero, ma se dovessi avere un’esperienza omosessuale non credo che andrei totalmente in crisi. Penserei: mi piacciono le donne ma è successo. Ho avuto questa esperienza e punto. Non subirei un trauma. E invece ho capito che per molti ragazzi e ragazze questa roba non è per niente fluida».

L’identità sessuale è molto esposta al giudizio degli altri.

«L’opzione più comune è che diventi una gabbia. Se sono etero non posso avere un’esperienza omosessuale e viceversa perché altrimenti si sconvolgono le categorie. Tuttavia l’alternativa alla gabbia – passare da un personaggio all’altro, essere oggi etero, domani gay, mettere insieme cose apparentemente inconciliabili – può essere rischiosa. Se sei una mente aperta, lo accetti perché accetti il fatto che gli esseri umani sono ambigui e contraddittori. Ma se hai un problema con la tua identità, come nel caso di Foffo e Prato, allora rischi di creare molti casini». 

Cosa ha imparato sul male lavorando a questo libro?

«Un carabiniere una volta mi ha detto, con tono calmo e razionale, che secondo lui l’omicidio Varani c’entrava con il demonio. Volendo interpretare in maniera laica il suo pensiero, potrei dire che il male è una forma di possessione. Il male è l’onda magnetica e noi l’antenna capace di intercettarlo se non stiamo attenti. Per abbassarla al livello della quotidianità, potrei dire che il male è quella tensione che spunta quando cominciamo a litigare con il nostro partner: si crea una specie di forza ricorsiva e circolare da cui facciamo fatica a staccarci.

A tutti è capitato di perdere il controllo e di venire posseduti da quella specie di coazione a ripetere, che devi necessariamente spezzare. Di solito l’unico modo è un evento esterno oppure la fuga. Se ci pensa, uno va in un’altra stanza proprio per spezzare la tensione che si sta creando. Oppure ha presente quando i gatti impazziscono e cominciano ad attaccarti? Lo fanno un po’ per giocare, ma anche perché non riescono più a dominare la loro aggressività. A Foffo e Prato è accaduto qualcosa di molto simile».

E torniamo all’idea degli assassini a loro insaputa.

«Attenzione, questo non toglie nulla alle loro responsabilità: sono colpevoli perché hanno creato tutte le condizioni per essere posseduti dal male, perché la loro aggressività si innescasse e si alimentasse vicendevolmente diventando incubi e succubi in un continuo gioco di ruoli. Esiste una parola tecnica per questo stato: contagio psichico. Il punto è che quando vengono posseduti dal male non hanno la struttura capace di spezzare quella forza. Forse Marco Prato lo intuisce quando – dopo ore chiusi in casa – dice a Foffo di invitare qualcuno, di chiamare una “terza mente” per stemperare la situazione. Ma poi la debolezza vince sulla capacità di cedere alle pulsioni peggiori». 

Di che cosa è fatta la struttura in grado di non farti cedere? 

«Disciplina ed educazione. Educare se stessi, conoscersi, dominarsi. I valori in cui sono immersi Prato e Foffo sono altri: l’obiettivo è “svoltarla”, diventare una star, abbagliare gli altri. Se non ce la fai, allora è ovvio che cominci a soffrire tantissimo, a provare frustrazione. E proprio quella frustrazione ti porta ancora più lontano dall’etica dell’auto-consapevolezza e dell’auto-educazione che tiene lontano dai casini. 

Entrambi i ragazzi hanno una cultura borghese, anche raffinata nel caso di Marco Prato. Sono lettori e viaggiatori. Ma insomma, puoi leggere tutti i libri che vuoi, andare ai concerti fighi: se non hai introiettato quei valori capaci di proteggerti, l’altra forza è molto più potente e rischia di trascinarti via. Non dico che rischia di farti commettere un omicidio – perché se quei due non si fossero incontrati probabilmente non avrebbero mai commesso un omicidio – però di mandare la tua vita alla deriva sì». 

Nel libro vengono definiti «ragazzi normali che vivono come autentici disperati»

«È una frase che dice un carabiniere. Tanti mi hanno detto di riuscire a capire di più il pischello che abita a San Basilio – che un tempo avrebbe rubato l’autoradio e adesso ruba il telefonino – di questi che hanno i soldi e una famiglia alle spalle. Un magistrato mi ha fatto notare come nelle chat parlassero spesso con disprezzo dei mezzi pubblici e di chi li prende. Era sconvolto, mi diceva: “Quando ho vinto il concorso in magistratura il primo stipendio era bassissimo ma nessuno osava lamentarsi. A questi se gli offri 1800 euro per un lavoro ti dicono “che me ne faccio?”». 

Le famiglie di Foffo e Varani sembrano però, in maniera diversa, aver trasmesso l’etica del lavoro ai figli.

«Per la generazione del magistrato valeva la regola per cui attraverso il lavoro potevi emanciparti dal punto di vista economico e sociale. Per la mia invece, e ancora di più per quella di Foffo e Varani, non è così: il lavoro non è più un mezzo di riscatto. Non devi più studiare e lavorare per emanciparti: l’unica cosa è “svoltarla”. È il solo modo per diventare Briatore, Bill Gates… Il divario tra le persone e i modelli aspirazionali è diventato troppo grande.

Ricordo un bellissimo reportage di Dave Eggers da un comizio di Trump. A un certo punto Eggers vede tra i supporter alcuni cittadini neri e ispanici. Si avvicina e chiede loro come mai fossero favorevoli alla politica fiscale di Trump che, in sostanza, permette a uno come Mark Zuckerberg di pagare in proporzione meno tasse di loro. E quelli rispondono: “Perché quando diventeremo miliardari pagheremo meno tasse pure noi”.  

Per me è stato molto più facile: io amavo la letteratura, l’80% per cento degli scrittori e dei poeti – che erano i miei eroi – avevano un tenore di vita basso, peggiore del mio. Il mio desiderio da ragazzo era lavorare nell’editoria. Quando sono arrivato a Roma nel ’98 lavoravo in una casa editrice indipendente, vivevo in un seminterrato, ma mi sentivo al centro del mondo – che però, attenzione, non era il centro del mondo condiviso. Io volevo essere accettato in una realtà in cui potevo entrare da super gregario. Non era una cosa così impossibile da fare: la mia ambizione era commisurata alla mia possibilità.  Ma cosa succede quando il tuo modello è così alto da diventare irraggiungibile?

Ho la sensazione che questi ragazzi vogliano diventare Steve Jobs senza neanche passare dai compromessi, le fatiche e gli sforzi che servono per provarci. Sono talmente fragili che rischiano di infrangersi al primo colpo e di farsi molto male». 

ANSA/ Giorgio Onorati | Un collage di foto di Luca, preparato e mostrato dagli amici in occasione dei funerali di Luca Varani, avvenuto a Roma il 19 marzo 2016

Roma esce a pezzi dal suo romanzo.

«Il mio libro non vuole essere una pietra tombale sulla città. In realtà è anche un atto d’amore verso Roma. Io non mi limito a dire “Roma fa schifo”, quello che dico è piuttosto: Roma è una droga e io sono un tossico. Se Roma è una malattia, me la sono presa pure io. Mi sono posto invece il dilemma del provinciale che critica Roma: ho diritto io che non sono romano da generazioni di raccontare questa cosa qui? Roma è un continente, come Napoli e Palermo, eppure ognuno ha un’interpretazione autentica e prescrittiva della città.

Flaiano diceva “Roma non giudica, assolve”. Io non voglio che La città dei vivi sia un manuale per la buona amministrazione della città, è il mio racconto che si unisce a quello di tanti altri. A me piace moltissimo la Roma raccontata da Emanuele Trevi, che è completamente diversa da quella raccontata da Alessandro Piperno, che è ancora diversa da quella di Amelia Rosselli, di Ennio Flaiano o di Sandro Penna ma sono tutte versioni legittime. Il fatto che una città sia – come le droghe – capace di provocare effetti diversi a seconda delle persone che ne fanno esperienza è un valore».

La sua scrittura è cambiata molto in questo libro: è diventata più asciutta, essenziale. Quanto pesa il fatto che sia legata a un fatto di cronaca nera? A faldoni, testimonianze, carte?

«Avere a che fare con una storia vera mi ha portato a ridurre al minimo qualunque artificio linguistico di cui pure mi sono servito in libri precedenti. La letteratura è meravigliosa proprio perché ha tante strategie, anche linguistiche, di approcciarsi al reale e ognuna appunto fa risuonare note diverse. Con La città dei vivi sentivo la responsabilità di una storia vera, per questo ho cercato una scrittura semplice ma capace di rispettare la complessità di un caso come questo. La lingua deve essere al servizio del sentimento che vuoi provare a comunicare e rendere leggibile».

Tutti, a proposito del suo libro, hanno tirato in ballo gli scrittori Emmanuel Carrère e Truman Capote, grandi autori di libri ispirati a fatti di cronaca.

«Troppo spesso si dimentica che l’Italia ha avuto e ha una tradizione importante di letteratura che racconta il vero. Pensiamo solo a Carlo Levi con Cristo si è fermato a Eboli, ad alcuni racconti di Anna Maria Ortese. Oppure a La pelle di Curzio Malaparte, in cui l’autore gioca a unire realtà e mistificazione. Cos’è Se questo è un uomo, se non un esempio di letteratura che si occupa del male reale? Oppure Sciascia con L’ Affaire Moro o La scomparsa di Majorana. O ancora Alessandro Leogrande, a cui ho dedicato il mio libro. L’Italia ha una importante tradizione di racconto della realtà, ricordiamolo». 

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