I ribelli della Brexit: così Irlanda del Nord, Scozia (e Gibilterra) sognano di restare in Europa

di Riccardo Liberatore

La Brexit ha aperto il vaso di Pandora e i veri vincitori rischiano di essere i movimenti indipendentisti del Regno Unito

Era il 2014 e la vittoria di David Cameron nelle elezioni politiche in Uk era minacciata da due crisi all’orizzonte: il referendum sull’indipendenza della Scozia dal Regno Unito e il referendum sulla permanenza del Regno Unito nell’Unione europea. Alla fine con un margine del cinque percento nel 2014 la Scozia aveva deciso di continuare a far parte del Regno Unito, mentre due anni più tardi, contro le aspettative di Cameron e per appena due punti percentuali, i cittadini britannici votavano in un referendum macchiato dalla disinformazione a favore della Brexit. Oggi, con la Brexit diventata realtà da un giorno, il Regno Unito si trova nuovamente a guardare in faccia l’ipotesi del proprio disfacimento. A partire dalla Scozia.


La Scozia di Sturgeon

EPA/FRASER BREMNER/SCOTTISH DAILY MAIL POOL | Il primo ministro scozzese, Nicola Sturgeon, maggio 2020

Dopo aver perso il referendum del 2014 il premier scozzese e leader del partito nazionale scozzese, Alex Salmond (arrestato per molestie e violenze sessuali di vario genere nel 2019 e poi assolto da tutte le accuse nel 2020), aveva giurato di volerci riprovare. La sua erede politica e attuale first minister, Nicola Sturgeon, la vede esattamente allo stesso modo ed è pronta a sfruttare l’assist fornito dalla Brexit, visto che anche se la maggioranza degli scozzesi sei anni fa non voleva separasi dall’Inghilterra, dal Galles e l’Irlanda del Nord, il 62% aveva votato a favore della permanenza nell’Unione europea.


Al grido di «siamo europeisti» Sturgeon vuole sciogliere l’unione nata nel 1707 e potrebbe anche riuscirci. Sia perché in Scozia gli indipendentisti sono avanti di circa 16 punti percentuali e sembrano destinati a stravincere le elezioni locali del prossimo maggio – in altre parole, avrebbero sempre più consenso per portare avanti il loro programma – sia perché diversi sondaggi di fine anno hanno mostrato che in Scozia è cresciuto l’appetito per l’indipendenza: escludendo gli indecisi, circa il 58% del Paese sarebbe favorevole a sciogliere l’unione. Anche se per farlo tramite un referendum costituzionale, servirebbe l’assenso del premier britannico – che difficilmente la Scozia otterrà – e, per quanto riguarda il ritorno nell’UE, non ci dovrebbero essere veti da parte di altri Paesi europei. Anche questo non è un esito scontato, visto la contrarietà della Spagna all’indipendentismo interno.

L’incognita Galles

EPA/ANDY RAIN | Il primo ministro del Galles, Mark Drakeford, in compagnia dell’ex leader dei laburisti, Jeremy Corbyn, 7 dicembre 2019

Gli effetti di un’eventuale vittoria degli indipendentisti in Scozia si farebbe certamente sentire anche in Galles, nonostante la patria del poeta Dylan Thomas (e del cantante Tom Jones), abbia votato a favore della Brexit nel 2016. A differenza dei parlamenti scozzesi e nord irlandesi, quello gallese ha votato a favore dell’accordo sulla Brexit, nonostante il premier laburista Mark Drakeford, lo avesse definito «debole e deludente». Ma, come Sturgeon, anche Drakeford offre un modello di leadership carismatica che si presta alle grandi avventure.

Il premier gallese esce dal 2020 rafforzato grazie ad un’esposizione mediatica maggiore rispetto al solito e grazie alla gestione indipendente della pandemia (visto che la sanità è competenza delle varie nazioni costitutive e non solamente di Boris Johnson). Inoltre, anche il Galles ha un proprio partito nazionalista/indipendentista – Plaid Cymru – che negli scorsi mesi aveva proposto un primo referendum “esplorativo” sull’uscita dall’Unione.

Sempre più europee: dall’Irlanda a Gibilterra

EPA/A. CARRASCO RAGEL | Ciclisti superano il confine per Gibilterra, 31 dicembre 2020

Referendum a parte, tra le conseguenze della Brexit c’è anche quella di aver allontanato da Londra – nei fatti – l’Irlanda del Nord e Gibilterra. Per quanto riguarda il territorio d’oltremare britannico, la Spagna e il Regno Unito hanno raggiunto un accordo in extremis che prevede che “la Rocca” – dove il 90% dei cittadini aveva votato contro la Brexit nel 2016 e circa 15 mila persone ogni giorno attraversano il confine per lavoro – rimanga nello spazio Schengen e continui a godere della libertà di circolazione con il resto dell’Unione europea. Cade così, per quanto riguarda Gibilterra, uno dei pilastri dell’accordo sulla Brexit raggiunto dal governo di Johnson.

Sempre per evitare la creazione di una “frontiera dura” come conseguenza della Brexit, soprattutto in una zona potenzialmente esplosiva come è il confine tra le due Irlande, l’Irlanda del Nord è rimasta nel mercato unico europeo. Il confine reale non sarà tra Belfast e la Repubblica di Dublino, ma nel mare che separa l’Irlanda del Nord dall’Inghilterra, dalla Scozia e dal Galles. Una barriera invisibile fatta di controlli e regolamenti che però avvicina nei fatti l’Irlanda del Nord all’Unione europea e che facilita ulteriormente la missione di Sinn Fein, il partito nazionalista repubblicano che da un secolo spinge per la riunificazione dell’isola e che con la Brexit vorrebbe ottenerla grazie a un nuovo referendum.

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