La rivincita degli Sherpa. Una spedizione nepalese conquista per la prima volta il K2 nella stagione invernale

di Valerio Berra

La giornata del 16 gennaio non è stata segnata solo dai trionfi per la storia dell’alpinismo. Verso la sera, lo spagnolo Sergi Mingote è morto dopo essere caduto lungo un tratto di strada vicino al Campo Uno

È un mondo conosciuto il nostro. Ogni centimetro dalla superficie è mappato dai satelliti, ogni vetta è stata raggiunta e ogni fiume è stato risalito. Sembra a volte che l’unica frontiera sia rimasta quella dello spazio profondo. E forse è per questo che quando qualcuno osa muoversi un passo più in là sul nostro pianeta, l’emozione che si prova è un misto di stupore e nostalgia. Il 16 gennaio per la prima volta nella storia dell’uomo un gruppo di alpinisti ha conquistato la cima del K2 nella stagione invernale. E non alpinisti qualsiasi. La cordata che ha raggiunto gli 8.609 metri di quota era formata tutta da sherpa, il popolo originario del Nepal che in queste montagne è nato e che per decenni ha guidato i ricchi alpinisti dell’Occidente sulle cime più alte del mondo.


La partenza dal Campo Base 4 e l’arrivo all’alba

Nirmal Purja, uno dei leader della spedizione

La cresta sud-est. O meglio, lo Sperone degli Abruzzi. La salita verso la vetta è cominciata la notte del 15 gennaio dal Campo Base 4, l’ultimo avamposto in cui si può riposare fissato a 7.800 metri di quota. Tre diverse spedizioni, tutte formate da alpinisti nepalesi, si sono unite per arrivare alla cima, raggiunta nelle prime ore dell’alba. Arrivati in vetta hanno cantato insieme Sayaun thunga phool ka l’inno nazionale nepalese, che tradotto significa Siamo centinaia di fiori.


A guidare i dieci uomini che hanno compiuto questa impresa è stato Nirmal Purja, autore della biografia Oltre il possibile, la mia vita nella zona della morte. Conosciuto nell’ambiente come Nims, questo alpinista ha realizzato un’altra impresa che ha segnato la storia recente della montagna: nel 2019 in una sola stagione (6 mesi) ha scalato tutte le 14 montagne che superano gli 8mila metri. Anche qui una prima volta. Un’impresa rischiosa, anche perchè quella zona della morte a cui si riferisce il titolo non è solo una mito che si racconta ai giovani scalatori. È una fascia montana oltre i 7.600 metri in cui vivere a lungo è biologicamente impossibile.

La
morte di Sergi Mingote

Sergi Mingote, l’alpinista spagnolo morto vicino al Campo Uno

La spedizione invernale sul K2 non è stata però solo un giorno di gloria per la storia dell’alpinismo. Dopo che i dieci nepalesi hanno raggiunto la vetta, lo spagnolo Segi Mingote è caduto in una delle zone più basse della montagna, quella compresa tra il Campo Uno e il Campo Base Avanzato. Non sono ancora chiare le dinamiche dell’incidente. Mingote avrebbe dovuto provare a replicare l’impresa dei nepalesi nei prossimi giorni. A soccorerlo insieme al rumeno Alex Gavan c’era l’alpinista italiana Tamara Lunger. Anche lei nei prossimi giorni tenterà di conquistare la vetta, già raggiunta nel 2014 durante la stagione estiva.

Il K2, la terra sacra dell’alpinismo italiano

Walter Bonatti, uno dei membri della spedizione italiana sul K2

È stata la nostra Luna. Nel 1954 l’Italia era un Paese uscito a pezzi dalla guerra. Un Paese in cui il tasso di analfabetismo era al 12%, il miracolo economico era ancora lontano e dentro ai nostri confini vivevano oltre 10 milioni di persone in meno rispetto a oggi. Eppure una spedizione di 13 alpinisti italiani, guidata da Ardito Desio e benedetta dal governo Scelba, riuscì il 31 luglio ad arrivare per la prima volta in cima al K2, la seconda montagna più alta del mondo. Molto più dura dell’Everest e di tante altre vette dell’Himalaya.

I due alpinisti che arrivarano in cima furono Achille Compagnoni e Lino Lacedelli. L’entusiasmo attorno al succeso durò però poco. Dopo il ritorno in Italia della spedizione, si aprì il “Caso K2”. L’eroismo con cui le relazioni ufficiali della spedizione celebravano Compagnoni e Lacedelli venne messo in dubbio da Walter Bonatti, l’alpinista più giovane (e forte) del gruppo. Secondo Bonatti dalle ricostruzioni offerte al pubblico mancavano dei punti che rendevano chiaro come Compagnoni e Lacedelli avessero messo a rischio la sua vita e quella del portatore pakistano Amir Mahdi pur di arrivare in vetta. Una versione che venne confermata ufficialmente solo nel 2004, dopo un’inchiesta indipendente condotta dal Club Alpino italiano.

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