Jason Miller, consigliere del tycoon, fa sapere che l'avvocato rimane «un alleato e un amico». Ma già da alcune settimane i rapporti non erano idilliaci
Donald Trump scarica Rudy Giuliani. La notizia arriva dal consigliere dell’ex presidente statunitense, Jason Miller, che ha detto alla Cnn che Giuliani «non rappresenta attualmente Trump in nessuna questione legale». L’ex sindaco di New York è stato il volto del tentativo fallito di Trump di ribaltare i risultati delle elezioni presidenziali. Miller ha poi fatto sapere in un tweet che Giuliani rimane un «alleato e un amico», spiegando che «semplicemente non ci sono casi in cui l’avvocato rappresenta l’ex presidente».
In realtà, riporta la Cnn, le tensioni tra i due hanno iniziato a emergere dopo il voto presidenziale. Secondo quanto riferito a gennaio dall’emittente statunitense, l’ex presidente avrebbe detto al suo staff di smettere di pagare le spese legali di Giuliani.
I guai giudiziari di Trump
Al momento, Trump deve fronteggiare più indagini, oltre alle cause per diffamazione da parte di due donne che lo accusano di violenza sessuale. In Georgia, l’ex presidente deve fare i conti con due nuove indagini per le chiamate che ha fatto ad alcuni funzionari nel tentativo di ribaltare i risultati nello stato. A New York, invece, l’ufficio del procuratore distrettuale di Manhattan sta cercando di capire se la Trump Organization abbia violato le leggi statali in materia di frode, spiega la Cnn.
La causa civile contro Giuliani
Nelle ultime settimane, la battaglia messa in piedi da Trump e dal suo entourage nel tentativo di ribaltare il risultato delle elezioni presidenziali ha provocato qualche guaio allo stesso Giuliani. Il democratico Bennie Thompson ha presentato una causa civile accusando non solo l’ex presidente ma anche l’avvocato ed ex sindaco di New York di aver cospirato con i gruppi di estrema destra, tra cui i Proud Boys, per incitare l’assalto al Congresso del 6 gennaio scorso.
Si chiama sequenziamento ed è la procedura che permette di scrivere il libretto delle istruzioni di un virus. Se il virus cambia è infatti prima di tutto necessario capirlo, determinare la pericolosità del cambiamento, e in ultima battuta stabilire le regole di contrasto, a quel punto nuove, per poterlo sconfiggere. È questo il motivo per cui le varianti del Covid-19 avrebbero bisogno di un sequenziamento capillare urgente sul territorio e soprattutto il più rapido possibile.
L’allarme da diverso tempo è quello di un monitoraggio nei laboratori ancora troppo basso, per l’Italia circa 1.32 sequenze depositate nella banca dati mondiale, a fronte delle quasi 200 depositate dalla Danimarca. Condizione non accettabile se l’obiettivo è quello di battere sul tempo una mutazione mostratasi più potente proprio in termini di velocità di contagio. Perché non riusciamo a sequenziare? Sono i costi il problema o c’è di più?
Per capire come è fatto un virus al suo interno, immaginiamo una catena di perline chiamate “nucleotidi” unite le une alle altre per formare una grande molecola chiamata Rna. La loro disposizione lungo la catena determina la composizione interna del virus. Quello che può succedere è che l’ordine delle molecole lungo la catena cambi nel momento in cui il virus ha bisogno di replicarsi in un altro organismo. A causa di un errore ecco nate le cosiddette varianti. Come facciamo ad accorgerci di questo cambiamento?
Con il sequenziamento. Per prima cosa, i laboratori adibiti, devono ricevere tamponi risultati positivi per poter prelevare la quantità di virus sufficiente all’analisi. Dopo l’arrivo dei tamponi si estrae il materiale genetico, lo si diluisce con specifici reagenti e lo si inserisce nel macchinario chiamato «sequenziatore automatico». La procedura è più complessa rispetto al rilevamento classico del virus: sui tamponi quotidianamente analizzati basta individuare la presenza o meno di Covid-19.
Sui tamponi che arrivano per individuare la variante, serve che il suddetto macchinario fornisca un particolare codice, «una serie di lettere che vanno inserite in programmi informatici appositi e che ricostruiranno degli alberi filogenetici», come spiega il prof. Fausto Baldanti del Laboratorio di Virologia Molecolare del San Matteo di Pavia, impegnato in queste ore proprio nell’attività di sequenziamento. A quel punto i dati forniti dal sistema informatico vanno interpretati, confrontati e studiati al fine di individuare mutazione e pericolosità. Lo step finale sarà quello di caricare le statistiche raccolte su un database comune a tutti gli altri laboratori di sequenziamento.
Un sequenziatore costa in media 100 mila euro
«Un sequenziatore automatico può costare di media circa 100 mila euro», spiega il professor Giovanni Maga direttore del laboratorio di Virologia Molecolare presso l’Istituto di Genetica Molecolare del CNR. Una cifra che può garantire anche solo con due sequenziatori a laboratorio un’alta capacità di produzione giornaliera: circa 2 mila sequenze al giorno. «Il vero nodo nella difficoltà di tracciamento» fa eco il prof. Baldanti del San Matteo, «non sta nell’investimento».
I due esperti raccontano di una tradizione di sequenziamento in Italia molto sviluppata. «Da quando siamo riusciti a sequenziare il genoma umano, da circa 20 anni fa ad oggi, la tecnologia a riguardo è aumentata, per il Dna dell’uomo prima occorrevano anni ora si impiega una settimana» spiega Maga. « I mezzi per sequenziare ci sono» continua Baldanti, «tre anni fa abbiamo combattuto contro una variante di morbillo sequenziando tutti i ceppi presenti. Così come anche per l’influenza, con tanto di database tuttora funzionati che potrebbero essere replicati anche per la variante stessa».
Il database Influnet è una delle piattaforme a cui il professore si riferisce, volto alla sorveglianza epidemiologica e virologica del virus influenzale. Le attrezzature in parte ci sono, le strategie di raccolta dati a quanto pare anche. Perché l’Italia, insieme a Germania e Francia che la superano di poco, non ha sfruttato come avrebbe quantomeno le risorse giù presenti?
La formazione degli operatori
Da quello che abbiamo capito finora i macchinari automatici possono eseguire anche molte “sequenze” al giorno, con una disponibilità e un costo che a detta degli esperti non costituiscono il vero problema. «Non c’è una limitazione dal punto di vista tecnico e neanche del costo del procedimento in sé», dice Maga. Uno dei nodi è quello del numero di operatori competenti in materia di sequenziamento. In condizioni normali è possibile che il compito di elaborazione venga affidato a un solo centro di ricerca, «che con tempi più o meno ampi analizza i dati arrivati dai laboratori».
Diversa la questione se la richiesta riguarda un monitoraggio in tempo reale. «Servono più operatori formati all’analisi e all’interpretazione dei dati, la parte più complessa, e quindi almeno un biologo per laboratorio che istruisca» continua Baldanti. Non secondaria la necessità di un protocollo comune che possa garantire una sorveglianza attendibile, seguendo lo stesso metodo di valutazione e ricerca in tutto il Paese. In alternativa l’analisi sarebbe falsata.
Alla questione degli operatori esperti si associa anche quella della tempistica. Il sequenziatore può elaborare nel giro di poche ore una grande quantità di dati, ma per interpretarli servono non meno di 48 ore. «E questo vale se ci si limita a una rilevazione preliminare, volta all’individuazione del tipo di variante. Per la mappatura dettagliata si va avanti anche per diversi d giorni» racconta il professore del San Matteo.
Il vero nodo: non c’è un piano nazionale
Alla luce di quanto detto finora, la sorveglianza in tempo reale sui movimenti delle varianti di Covid-19 non può fare a meno di un coordinamento a livello nazionale. «Decine di migliaia di sequenze al mese non possono essere condotte senza una rete organizzata, serve subito una gestione dall’alto che disponga le risorse e le faccia partire secondo una strategia ben dettagliata» insiste Maga.
I laboratori di Microbiologia nelle realtà ospedaliere, potenzialmente in grado di sequenziare il virus, sono parallelamente impegnati con le attività routinarie della struttura. «Idealmente potrebbero coprire una buona quota, ma dovrebbero occuparsi solo di quello o creare un’unità dedicata che si occupi solo di tracciare le varianti. Ecco perché serve coordinamento», continua Maga.
Risale a gennaio la proposta timida del governo per la fondazione di una rete unica di controllo sui ceppi di virus circolanti. Ma al momento sembra tutto fermo. Anche gli stessi centri di ricerca, di cui l’Italia è ampiamente dotata, attendono di poter essere coinvolti nella fase più complessa che, come spiegato, è quella dell’interpretazione dei dati. Dai laboratori di analisi potrebbero arrivare i famosi codici prodotti dai macchinari, che i centri analizzerebbero sfruttando la maggiore potenza di calcolo di cui sono dotati.
L’efficacia di un piano strategico anche sul sequenziamento è confermata dall’esperienza del Paese di fatto più avanti: già all’inizio della pandemia la Danimarca ha istituito il Danish Covid-19 Genome Consortium, un consorzio che ogni settimana pubblica l’aggiornamento sulle attività di sequenziamento e sulla incidenza delle diverse varianti nei nuovi casi diagnosticati. «Una questione di network su cui siamo nettamente in ritardo e continuiamo ad esserlo» riassume Maga, «i tempi di reazione della politica lasciano ancora a desiderare, gli attori sul territorio sono disponibili, la strategia per coordinarli non c’è».