La sentenza storica per il reintegro di Hamala Diop, licenziato perché denunciò la Rsa che «vietava l’uso delle mascherine»

Il 26enne aveva denunciato, insieme ad altri 17 colleghi, l’istituto Don Gnocchi per diffusione colposa di epidemia. Il tribunale di Milano: «Il suo non era solo un diritto, ma anche un dovere civico»

Cheickna Hamala Diop oggi ha 26 anni e vive a Parigi. Era arrivato in Italia all’età di dieci anni, dal Mali. Dopo aver perso il lavoro la scorsa primavera per aver denunciato la Rsa dove era impiegato, il Don Gnocchi, l’operatore sanitario ha lasciato il nostro Paese, in cerca, altrove, di condizioni lavorative più giuste. La giustizia italiana, tuttavia, partendo dalla vicenda dell’operatore della struttura per anziani, ha scritto una sentenza storica che farà giurisprudenza: la giudice Camilla Stefanizzi della sezione lavoro del tribunale di Milano ha reintegrato Diop, difendendo la figura del whistleblower, tutelata dalla legge 179 del 2017 ma, ancora oggi, vittima di ritorsioni da parte dei datori di lavoro.


I fatti

Il 26enne era stato cacciato dalla cooperativa Ampast, che fornisce personale alla Rsa milanese del Don Gnocchi, il 7 maggio 2020. Diop – come ha raccontato all’epoca dei fatti a Open -, aveva denunciato l’istituto di Milano, per il quale prestava servizio ormai da tre anni, per il reato di diffusione colposa di epidemia. Nell’intervista ha motivato così la sua scelta:


«Ho deciso di denunciare il giorno in cui ho saputo che c’erano stati dei casi di Coronavirus all’interno dell’Rsa. Il 14 marzo è arrivato un messaggio nel gruppo su Whatsapp dei colleghi in cui ci veniva detto che eravamo entrati in contatto con dei casi positivi. Il documento, però, era firmato il 10 marzo: vi rendete conto che erano passati quattro giorni dalla scoperta dei contagi alla comunicazione a noi oss? Siamo anche venuti a conoscenza che c’erano stati dei casi di Covid già da prima, mentre i nostri capi ci avevano assicurato che il Don Gnocchi era sicuro. Allora mi sono chiesto: come facevano a essere certi se non erano mai stati fatti dei tamponi? Ma le negligenze erano tante: un’altra, clamorosa, era il divieto di utilizzare le mascherine. Pure se ce le portavamo da casa, ci veniva chiesto di rimetterle in tasca»

Hamala Diop, intervista a Open

La Guardia di Finanza aveva aperto già da aprile 2020 un fascicolo sull’Istituto Don Gnocchi di Milano, per indagare sulla morte di circa 140 anziani. Tra le accuse mosse da Diop e da altri 17 colleghi, inoltre, ce n’era una relativa all’utilizzo dei dispositivi di protezione individuale. «Ricordo benissimo che gli infermieri dicevano – agli oss – di nascondere le mascherine per non far vedere ai superiori che le utilizzavamo». Veniva disincentivato l’utilizzo delle protezioni per non creare allarme e a farne le spese non erano soltanto i pazienti della struttura, ma gli stessi dipendenti: Diop stesso, il 20 marzo 2020, è risultato positivo al Coronavirus.

La sentenza

Attraverso il sindacato Usb, arrivò ai vertici di Ampast e del Don Gnocchi la richiesta di maggiore sicurezza. Il comunicato, ripreso anche dai media, in quel periodo concentrati sulla cosiddetta “strage degli anziani” nelle Rsa lombarde – morirono 700 persone -, creò non pochi imbarazzi ai dirigenti delle due società. Diop fu licenziato e alcuni suoi colleghi vennero trasferiti in altre strutture. Oggi, 10 maggio, è stata resa pubblica la sentenza che punisce il comportamento della cooperativa Ampast: dovrà reintegrare Diop, pagare un’indennità corrispondente a tutte le mensilità maturate dal giorno del licenziamento e le spese legali agli avvocati dello studio Reboa, che hanno assistito l’operatore sanitario.

Le motivazioni della giudice

Visto che la denuncia riguardava la tutela della salute, «l’interesse pubblico alla conoscenza della notizia è tale da ritenere che l’attività, non solo di denuncia all’autorità giudiziaria, ma anche di denuncia ai maggiori mezzi di comunicazione, possa essere considerata non solo un diritto, ma anche un dovere civico», si legge nella sentenza. «Agli esordi di un’epidemia con effetti subito manifestatisi di enorme gravità, le informazioni su quanto stava accadendo all’interno della Fondazione avrebbero potuto conseguire il risultato concreto di mettere in salvo delle vite umane».

Come? «Consentendo l’adozione delle necessarie contromisure, sia da parte dei parenti che avrebbero potuto considerare anche l’opportunità di trasferire immediatamente i loro congiunti qualora non avessero condiviso o ritenuto sufficienti a proteggere la salute dei loro cari le prassi ivi poste in essere, sia da parte della Fondazione, che avrebbe potuto essere indotta a rivederle e a modificare con maggior tempestività la propria condotta per scongiurare l’impressionante numero di decessi che di fatto si sono verificati nell’arco di pochissimo tempo».

Leggi anche: