Bonus psicologo, Stefano Tavilla: «Medici in piazza insieme ai pazienti per la salute mentale»

Il presidente dell’Associazione Mi Nutro Di Vita e fondatore del Movimento Lilla commenta le difficoltà del sistema italiano a fare fronte a quella che è già la più importante emergenza sanitaria

«Giulia è venuta a mancare il 15 marzo del 2011 a 17 anni. Malata di bulimia e poi di anoressia, da mesi era in lista d’attesa per entrare in una struttura. È morta aspettando». A pochi giorni dalla bocciatura del bonus psicologo da parte del governo, Stefano Tavilla, presidente dell’Associazione Mi Nutro Di Vita, fondatore del Movimento Lilla e premiato dell’onorificenza al merito lo scorso 21 novembre dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, è il padre di una delle migliaia di vittime del nostro sistema sanitario. «Troppo distratto per intercettare quella che con certezza assoluta sarà la nuova emergenza degli anni che ci aspettano». Giulia non era stata considerata troppo grave, «il suo peso rientrava ancora nelle soglie dettate», racconta Tavilla, «come se il disagio mentale poi fosse una questione di numero sulla bilancia». Poco più di tre settimane fa il fondatore della Giornata Nazionale per i Disturbi del Comportamento Alimentare (il 15 marzo, lo stesso giorno della morte di Giulia), annunciava una notizia che aveva ridato speranza a migliaia di giovani e famiglie.


I disturbi alimentari sono finalmente entrati nei Livelli Essenziali di Assistenza, considerate come patologie a sé stanti e quindi meritevoli di prestazioni e i servizi che il Servizio sanitario nazionale sarà tenuto a fornire. «C’è finalmente luce su chi soffre e su chi non c’è più», aveva detto Tavilla dopo la decisione del Senato. La speranza era quella di una presa di coscienza generale sul problema disattesa ben presto da un segnale del tutto opposto. «Non si è ancora ben capito o si fa finta di non capire demandando a generazioni future quella che già è e diventerà sempre più l’emergenza sanitaria principale a cui dover far fronte. Un male invisibile che continua a peggiorare di anno in anno e che stiamo decidendo di non curare in tempo. Così facendo abbiamo dato ancora più il fianco al propagarsi di conseguenze a lungo termine già ampiamente evidenti, perché è chiaro che i problemi erano presenti ancora prima della pandemia».


Tavilla, sarebbe davvero bastato un bonus psicologo per riempire le lacune di cui ben 11 anni fa è stata vittima Giulia e con lei tanti altri giovanissimi fino ad ora?

«Ovviamente no. Ma è chiaro anche che partendo da nessuno aiuto stiamo spianando la strada all’aggravamento dei casi. Il supporto psicologico così come era studiato aveva delle lacune ma poteva essere senza dubbio un tampone. In questo modo perdiamo la prima fase di intervento, che è l’approccio con la figura clinica».

Parlava di lacune della proposta fatta. Cosa c’è di migliorabile?

«L’intervento dovrebbe riguardare l’intero sistema e quindi la capacità complessiva del sistema pubblico sanitario di far fronte a una grossa emergenza. Detto questo, considerato il bonus come strumento di emergenza, la grossa lacuna che sicuramente riscontro è che si sia puntato solo sull’aspetto psicologico. Siamo in una situazione troppo avanzata. Il problema mentale va affrontato sia con la psicoterapia ma anche con la psichiatria. Abbiamo dei malesseri che non possono prescindere da un intervento di un medico psichiatra. È già molto difficile scardinare lo stigma sulla salute mentale, ancora di più sulla figura dello psichiatra, visto come una specie di spacciatore di farmaci pericolosi. Si tratta invece di un percorso che in molti casi è necessario vada di pari passo alla psicoterapia. Parlando dei disturbi alimentari per esempio, è difficile che un giovane che si presenta con una difficoltà del genere non abbia anche altre patologie. Dal borderline all’autolesionismo, i disagi della mente li travolgono senza che riescano a trovare aiuto in modo tempestivo e mirato».

Si gioisce per i Lea, si piange per il bonus. Sono quasi undici anni che lotta senza sosta per la memoria di sua figlia e migliaia di altre morti. Cosa si può fare praticamente di fronte a questa bocciatura? Scendere in piazza?

«C’è bisogno di un’unità di intenti non solo tra i fruitori dei servizi, non solo tra i pazienti e le loro famiglie, ma anche da parte di chi è chiamato a mettere in pratica quei sostegni».

I medici?

«I medici e i gestori della salute pubblica. Per la categoria dei medici, la carenza strutturale della loro presenza nel pubblico è enorme. Non ci sono psicoterapeuti e psichiatri nei servizi pubblici. Vengono assunti in modo più che lento. La scesa in piazza dovrebbe avvenire anche da parte loro. Vorrei vedere uno schierarsi maggiore per la causa. Nel pubblico lavorano pochissimo, e quella èlite che riesce a lavorare nel privato fa un percorso tutto suo che però è per pochi. Se non cogliamo tramite il risvolto che la pandemia ha dato sulla salute mentale l’occasione per far qualcosa rimarremo deficitari per tutti gli anni a venire. Da parte degli amministratori poi il discorso è ancora più necessario. I giovani hanno risentito molto del segnale negativo che il governo ha dato con la bocciatura. Sentono di non essere compresi. È per questo che il sentimento pro attivo non deve partire solo da loro. I gestori della salute pubblica hanno forse presente più di tutti le lacune e le difficoltà: sono loro che offrono i percorsi di cura per esempio nelle comunità e nelle residenze. Dare questo tipo di sostegno rimane anche una questione burocratica che porta chi se ne occupa ad avere contezza di quanto stia costando alla comunità l’emergenza della salute mentale. E si tratta di costi altissimi. L’unione di intenti non può escludere anche questa parte del sistema».

Eppure si ha la sensazione che, oltre a tutti gli interventi pratici, la consapevolezza di un’emergenza di questo tipo rimanga pur sempre una questione culturale

«Lo è. Gli ultimi due rapporti del Ministero della Salute sulla salute mentale, datati 2018 e 2019, facevano una serie di analisi sui numeri di tutto un gruppo di patologie psichiatriche, non citando minimamente per esempio i disturbi alimentari. La seconda causa di morte in Italia dopo gli incidenti stradali. Cos’altro deve succedere?

Dopo infiniti iter istituzionali, numerosi rimbalzi dalla Commissione di revisione dei Lea, siamo arrivati a scendere in piazza lo scorso 8 ottobre a seguito di un aumento di morti spaventoso di giovanissimi. Siamo stati ricevuti dal sottosegretario Sileri e ora siamo in attesa che quanto pensato con i Lea abbia attuazione concreta. Il 25 di gennaio l’Istituto superiore di sanità diffonderà numeri epidemici sui disturbi alimentari. Anche in questo caso l’attesa è stata di anni. Come si fa a fare ricerca scientifica o, ancora più alla base, capire quante cure dover fornire, se non si hanno a disposizione i dati numerici di un’emergenza? Tutto questo ci fa capire quanto la sottovalutazione è stata prima di tutto culturale e poi pratica. Ora attendiamo le cifre registrate, rimanendo consapevoli che quei numeri saranno in ogni caso sottostimati. Noi operatori tocchiamo con mano e sappiamo quanto sia ampia l’incongruità tra l’offerta di cure con la domanda offerta, ma stiamo parlando pur sempre di patologie che viaggiano in un sottobosco di omertà».

Morire per l’assenza di cure e non per la patologia in sé. Un paradosso che oggi non possiamo più permetterci

«La letteratura scientifica ci dice chiaramente che di disturbi alimentari come di altre patologie legate al disagio mentale si può guarire. Le più alte cariche scientifiche che si occupano degli stessi problemi di mia figlia continuano a ribadire l’accumularsi di morti per mancate cure. Si parla del 70% di guarigione con la normale terapia d’equipe dove l’intervento iniziale in ambulatorio è fondamentale per prendere in tempo il disagio. Stessa cosa succede con i disagi mentali in generale, dove anche solo l’accesso a una serie di prime sedute può essere un varco che in alternativa non verrebbe aperto in nessun altro modo».

Foto: Anthony Tran su Unsplash

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