«Veniamo spremuti senza tutele». L’appello dei giovani medici in fuga dall’Italia dopo il Covid – Il video

Denunciano burnout, ritmi di lavoro massacranti e retribuzioni inadeguate. In molti scappano in Svizzera, Francia, Regno Unito, Canada e Usa (e non tornano più)

Ancora fuga dall’Italia, ancora giovani costretti a lasciare il nostro Paese. L’allarme, adesso, arriva dai giovedì medici: si formano in Italia, poi fuggono all’estero e non tornano più. Una perdita enorme. A confermarlo è Pierino Di Silverio, responsabile Nazionale Anaao Giovani, secondo cui i giovani medici sarebbero vittime di burnout, ritmi massacranti e condizioni di lavoro difficili. Tra questi ci sono Michela, Marco, Jessica, Antonio e Matteo che in un video raccontano le loro esperienze. Michela Piledu, ad esempio, specialista in Chirurgia generale, ha lasciato il servizio sanitario nazionale italiano dopo 16 anni: non riusciva più ad avere «una qualità della vita decente a causa di turni e orari massacranti. I medici vengono usati e spremuti, non sono tutelati», dice. Ora è a Londra. Marco Belgeri, urologo, invece, è a Losanna: «Non volevo restare intrappolato in un sistema di formazione prima e lavoro poi in cui le possibilità di progressione e sviluppo sono dettate da rigide gerarchie e fattori che spesso non hanno nulla a che vedere col merito».


Cosa chiedono i giovani medici

I giovani medici – oltre 11 mila negli ultimi dieci anni hanno lasciato l’Italia – sono fuggiti in Svizzera, Francia, Regno Unito, Canada e Usa. Oltre al carico di lavoro eccessivo denunciano anche luoghi di lavoro non sicuri e retribuzioni inadeguate. E il rischio è che molti giovani, adesso, vadano direttamente all’estero per conseguire la specializzazione. Nemmeno ci provano più a restare in Italia. Ma cosa chiedono nello specifico? Tra le richieste ci sono il rinnovo del contratto di lavoro con retribuzioni adeguate all’inflazione, la detassazione del lavoro straordinario così da renderlo quantomeno più appetibile, l’investimento su nuove assunzioni così da migliorare l’organizzazione del lavoro e l’avviamento di una riforma strutturale per la formazione. Come? Lasciando la formazione in mano agli ospedali e non più all’università. Oggi, infatti, gli specializzandi dipendono dal Miur e non dal ministero della Salute. Paradossale. Svincolare la loro formazione dalle dinamiche universitarie, legandola di fatto al fabbisogno del servizio sanitario nazionale darebbe non solo una boccata d’ossigeno agli ospedali ma renderebbe anche più meritocratico e meno disorganizzato il lavoro degli specializzandi (ancora oggi un ibrido tra studenti e lavoratori).


Foto in copertina di repertorio: ANSA

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