Così il patto Pd-Calenda può rovinare la vittoria del centrodestra al Senato. Ma Sinistra Italiana pensa al M5s

L’obiettivo del 37% per il pareggio a Palazzo Madama. 46 collegi decisivi. Ma Fratoianni rilancia l’accordo con i grillini

Il patto tra Partito Democratico e Azione difficilmente ribalterà l’esito delle elezioni. Ma potrebbe raggiungere un obiettivo importante. Ovvero quello di non far arrivare alla maggioranza il centrodestra in Senato. «Niente è già scritto, nemmeno il risultato del voto», è il convincimento del Nazareno. E strappando i collegi giusti grazie all’accordo con Calenda si può arrivare «se non a vincere, quantomeno a vanificare la vittoria degli altri». Ma intanto il leader di Sinistra Italiana Nicola Fratoianni non ci sta: con i Verdi torna a pensare all’alleanza con il Movimento 5 Stelle. E punta il dito contro il rigassificatore di Piombino e l’Agenda Draghi: «Se è questo il programma della coalizione, allora arrivederci e grazie». Per Fratoianni si deve riaprire il dialogo con il M5s. E l’ex sindaco di Roma Ignazio Marino chiede un accordo tra Conte e Letta «con un programma minimo».


L’obiettivo del 37% per il pareggio a Palazzo Madama

È il Messaggero a raccontare oggi che l’obiettivo del patto tra Calenda e Letta non appare così irraggiungibile. Per farlo, spiegano fonti Dem, «può essere sufficiente crescere del 3-4%» a livello nazionale rispetto agli ultimi sondaggi. Cioè la coalizione di centrosinistra dovrebbe arrivare a toccare più o meno il 37%. E vincere nei 16 (o 25?) collegi che erano in bilico in caso di rottura con Azione. L’intesa 70-30 sull’uninominale porterà al duo Azione/+Europa tra i dieci e i quindici seggi. Mentre al Pd ne dovrebbero arrivare tra i 35 e i 40. E i collegi maggioritari sono decisivi nel Rosatellum.


Poi ci sono le questioni politiche. L’accordo con Calenda può permettere al Pd di far pesare il dualismo “O con noi o con Meloni” già indicato da Letta come la vera sfida delle elezioni del 25 settembre. «Due partiti in calo, Lega e Forza Italia. Fratelli d’Italia in buona salute. E noi quattro in crescita, parlo di Pd, Calenda e +Europa, la federazione di Sinistra italiana e Verdi, Impegno civico che è appena nato. La dinamica è chiara. Ricordate il 2013 e il 2018? Tanti elettori decidono negli ultimi dieci giorni. E noi daremo il massimo», dice oggi Calenda in un’intervista al Corriere della Sera.

46 collegi decisivi

Su Meloni c’è anche un’incognita: «Siamo sicuri che sia così forte da Roma in su?», è il ritornello che si sente dalle parti dei Dem. In effetti finora tutte le “vittorie” di Fratelli d’Italia sono state virtuali. Il partito è cresciuto, sì, ma senza ottenere finora i risultati che gli attribuiscono i sondaggi. Che oggi non vengono ritenuti affidabili come in passato, visto che la riduzione del numero dei parlamentari ha portato alla rideterminazione del collegi. E oggi le stime vengono elaborate solo sommando le circoscrizioni.

Le simulazioni disponibili in ogni caso dicono che la sfida si giocherà in 46 collegi decisivi: 17 al Senato e 29 alla Camera. E qui i nomi dei candidati saranno fondamentali. La Sardegna, il V municipio di Roma, le circoscrizioni campane come Salerno e Torre del Greco, Rossano in Calabria e Potenza in Basilicata sono tutte aree orfane del clamoroso consenso avuto dai grillini alle urne del 2018. Così come i collegi toscani (Arezzo, Prato), e ancora Trento e Bolzano, buona parte della Liguria, Bari e Ancona. Tutti collegi decisivi nei quali, secondo i Dem, grazie all’accordo con Calenda ora la partita torna in parità.

Il travaglio di Sinistra Italiana

Intanto però c’è chi non la vede così. Matteo Renzi già ieri faceva notare che con l’accordo tra Pd e Azione a brindare sono Lega e Forza Italia. Il ragionamento dell’ex premier è che ora il Terzo Polo perde la sua capacità di attrattiva nei confronti degli elettori del centrodestra che non gradiscono l’abbraccio con il populismo. Ad oggi il leader di Italia Viva è ancora determinato ad andare da solo. «Noi non possiamo stare in coalizione con chi ha votato 55 volte contro Draghi», è il refrain. Ieri Letta è tornato a lasciare le porte aperte a Renzi. Che però non ha intenzione di accettare il “diritto di tribuna” proposto a Di Maio.

Più complicata la situazione intorno a Sinistra Italiana. Fratoianni pareva aver scelto l’accordo con il Pd invece del tentativo di creare una coalizione con il Movimento 5 Stelle (e con Michele Santoro). Oggi in un’intervista a La Stampa pare voler rimettere in gioco tutto: «Se qualcuno pensa che l’agenda programmatica della coalizione sia questa, non ci sarà l’alleanza con Sinistra e Verdi. Calenda parli di quel che vuole e vada in pace». E ancora: «Verificheremo (oggi, ndr) se ci sono le condizioni per fare campagna elettorale sul nostro programma. Se qualcuno mi dice che per fare questa intesa devo accettare di non battermi più contro il rigassificatore di Piombino o devo votare per l’invio di armi all’Ucraina o per l’aumento della spesa militare allora arrivederci e grazie. Senza rancori, ma arrivederci».

L’ipotesi M5s

Fratoianni rilancia anche l’ipotesi di alleanza “elettorale” con il M5s: «Sarebbe stato giusto lavorare a una coalizione larga, partendo dal Conte II. Il dialogo con i Cinque stelle si deve riaprire. La politica non è mai una fotografia, è un processo in movimento». La stessa cosa dice l’ex sindaco di Roma Ignazio Marino in un’intervista rilasciata al Fatto Quotidiano: «Enrico Letta è un leader dotato di cultura e relazioni ma si trova al timone di un partito che oggi si preoccupa di chi ricandidare in collegi sicuri e non di dove condurre il paese. Ritengo che anche egli sia abile a gestire il potere ma gli riconosco una visione che i suoi dirigenti hanno in larga parte perduto. Si potrebbe ricomporre solo se si presentassero insieme davanti al Paese con pochi essenziali punti programmatici e la lista degli eventuali ministri».

E ancora: «Il Pd potrebbe tentare l’impossibile se indicasse pochi, ineludibili, punti programmatici di sinistra ai quali il segretario vincolasse la sua reputazione candidando tutti volti nuovi della società civile e inviando nei collegi uninominali considerati difficili i propri leader». Ma il patto con Calenda prevede l’esatto contrario.

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