Dipendenti dalla Cina o tutelati dal protezionismo? Gli esperti si dividono sulle conseguenze del passaggio Ue all’auto elettrica – Le interviste

Oggi Pechino controlla il 70% del mercato delle batterie. Quali saranno le conseguenze geopolitiche della svolta europea verso l’auto elettrica?

La scorsa settimana, l’Unione Europea ha dato il suo ok definitivo al divieto, a partire dal 2035, di vendere nuove automobili a diesel e benzina. Una decisione destinata a rivoluzionare l’industria europea dell’automotive, nel tentativo di rendere più sostenibile il settore dei trasporti. Accanto alle sfide dell’occupazione e della tutela ambientale, c’è un altro ambito in cui la svolta verso la mobilità elettrica potrebbe avere conseguenze: le relazioni internazionali. Ad oggi, la Cina ha una quota di mercato pari al 70% delle batterie prodotte nel mondo. E i materiali necessari alla produzione delle batterie – litio, cobalto e terre rare – sono concentrati in pochi paesi in Africa e in Sud America. Gli esperti di geopolitica sono d’accordo nel ritenere che la decisione di Bruxelles avrà conseguenze anche sul piano internazionale. Ognuno, però, fa le sue previsioni. «L’auto elettrica è solo un tassello della più ampia competizione industriale tra grandi blocchi, che porterà probabilmente a una gara di sussidi e, forse, a nuove forme di protezionismo», sostiene Alessandro Gili, ricercatore Ispi specializzato in geoeconomia. «Non credo che la decisione dell’Unione Europea possa impattare davvero la traiettoria delle potenze. Ci limiteremo a passare da una dipendenza all’altra: in particolare, dal petrolio dei Paesi del Golfo alle batterie elettriche della Cina», ribatte Dario Fabbri, direttore della rivista di geopolitica Domino.


Il primato indiscusso della Cina

Nel mercato della mobilità elettrica, la Cina è il leader mondiale indiscusso. Il Dragone produce circa il 70% delle batterie in commercio e ha una quota tra il 70% e l’85% per le componenti con cui vengono prodotte quelle stesse batterie. Le vendite di veicoli elettrici delle case automobilistiche cinesi, poi, sono alle stelle: soltanto nel 2022 ne sono stati venduti 5,6 milioni, pari al 19% del totale. «Le aziende cinesi hanno costi di vendita del 40% inferiori rispetto alle case automobilistiche occidentali – spiega Gili -. Questo è dovuto alla grande disponibilità di materiali critici per la produzione, come il litio, ma anche a una forte integrazione verticale dell’intero processo produttivo». Secondo il ricercatore dell’Ispi, la filiera europea dell’automotive avrebbe la capacità di internalizzare la produzione di auto elettriche. Il problema, semmai, sono i costi. Per questo la Commissione Ue sta pensando di creare una Critical Raw Materials Alliance, che riunisca i paesi ricchi di materie prime e i paesi “consumatori”. «Questo permetterebbe di garantire la sicurezza globale dell’approvvigionamento attraverso una base industriale competitiva e diversificata – ragiona Gili –. Nel breve periodo, poi, è probabile l’introduzione temporanea di dazi all’import di veicoli elettrici prodotti in Cina».


Da una dipendenza a un’altra

Insomma, il rischio di diventare dipendenti da Pechino è concreto. È pur vero, però, che non si tratterebbe di una novità. Ad oggi, infatti, la maggior parte delle auto che circolano in Italia va a benzina. E il nostro Paese importa la quasi totalità del petrolio che consuma. «È un gioco di vasi comunicanti», osserva Fabbri, «in cui si passa semplicemente da una dipendenza a un’altra, sebbene questo migliorerà la qualità della nostra vita». Secondo il direttore di Domino, la decisione europea di puntare sull’auto elettrica segue senz’altro un’idea di sostenibilità ambientale, ma rivela anche «la scelta geopolitica dell’Unione Europea di smarcarsi dai paesi del Golfo». Se la dipendenza dai paesi che esportano petrolio è destinata a ridursi sempre di più, lo stesso non si può dire per quei paesi da cui importiamo gas naturale. «Non credo che gli accordi stretti dal governo italiano in questi mesi per avere nuove forniture di gas diventeranno obsoleti», spiega Alessandro Lanza, docente dell’Università Luiss e direttore della Fondazione Eni Enrico Mattei. «Il gas ci servirà ancora a lungo per produrre energia elettrica, perché prima di avere tutta l’elettricità da fonti rinnovabili, e avere pure la capacità di stoccaggio, ci vorrà ancora molto tempo». Per quanto riguarda la dipendenza dalla Cina, Lanza aggiunge. «Mi sembra un ragionamento un po’ fallace. È vero, andiamo a dipendere dalle loro batterie, ma lo stesso avviene in tanti altri settori. L’Italia è un paese molto povero di materie prime e risorse naturali, eppure siamo nel G7. Ognuno si specializza in modo diverso», precisa il docente della Luiss.

Un ritorno del protezionismo?

EPA/ALEX PLAVEVSKI | Una fabbrica di macchine elettriche di BYD (Build Your Dreams) a Xi’an, in Cina (14 October 2019)

L’altra grande incognita geopolitica della svolta verso l’elettrico riguarda il rapporto tra i paesi ricchi di materie prime e i paesi occidentali che stanno spingendo l’acceleratore sull’elettrificazione dei trasporti. Secondo alcuni osservatori, come Gili, questo potrebbe portare a una «gara di sussidi». Con l’Inflation Reduction Act approvato lo scorso anno, per esempio, il governo americano prevede incentivi molto generosi per chiunque acquisti auto elettriche made in USA. Una strategia che potrebbe essere replicata anche dall’Unione Europea, dando il via libera agli aiuti di Stato e a un possibile ritorno del protezionismo. Non tutti, però, sono d’accordo con questa previsione. «Possiamo immaginare un aumento della produzione interna sia in Europa che negli Stati Uniti, ma non certo una corsa al protezionismo», sostiene Fabbri. «Questo per una ragione molto semplice: noi il protezionismo non possiamo averlo, perché gli americani non ce lo consentirebbero. Gli incentivi approvati dal congresso americano sono misure cosmetiche ed elettorali, che forse sono state prese troppo sul serio in Europa», aggiunge il direttore di Domino.

Alla ricerca delle materie prime

EPA/MARTIN ALIPAZ | “Salar”, una riserva di litio di oltre 12mila chilometri quadrati a Uyuni, in Bolivia (6 novembre 2008)

Con il Green Deal Industrial Plan, Bruxelles si è data l’obiettivo di facilitare la nascita di una filiera completa dell’auto elettrica in Europa. Per produrre una porzione rilevante di veicoli all’interno dei propri confini, però, l’Unione Europea deve prima di tutto essere in grado di assicurarsi le materie prime. Ad oggi, il litio e il cobalto sono i due materiali più utilizzati per la produzione di batterie elettriche. Il primo si trova soprattutto in Sud America, nel cosiddetto «triangolo del litio» – composto da Bolivia, Argentina e Cile – dove si concentra il 59%  delle estrazioni di tutto il mondo. Il 70% del cobalto, invece, viene estratto in Congo, dove le ong denunciano la presenza di migliaia di lavoratori irregolari e non in condizioni di sicurezza. A catturare la quota più grande di investimenti in Africa è la Cina, in particolare dopo il lancio della Belt & Road Initiative nel 2013. Da qualche anno, però, anche Bruxelles ha lanciato il suo piano di investimenti, ribattezzato Global Gateway, con una dotazione di 300 miliardi di dollari. «Assicurare alti standard ambientali e sociali può essere una buona strategia per rendere più appetibili e accettabili gli investimenti europei da parte degli stati africani e per creare una competizione verso l’alto con i concorrenti cinesi in loco», spiega Alessandro Gili. Accanto agli accordi con Paesi africani, la strategia europea poggia su un altro pilastro: la ricerca di metalli e materie prime anche all’interno dei confini europei. In Svezia, per esempio, è stato scoperto un giacimento di terre rare. Il processo di mappatura da parte dei 27 Paesi membri, però, è soltanto all’inizio.

Foto di copertina: EPA/ALEX PLAVEVSKI | Operai al lavoro in una fabbrica cinese di BYD (Build Your Dreams) – 14 ottobre 2019

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