Armi all’Ucraina, gli Usa ammettono: «Produzione insostenibile». E il sostegno alla guerra vacilla nell’opinione pubblica

Un’inchiesta del “Washington Post” dà voce ai dubbi che serpeggiano sempre meno impliciti alla Casa Bianca e al Congresso, mentre tra i cittadini crescono i segnali di disagio

A oltre un anno dall’inizio dell’aggressione russa, nessuno scorge la fine del conflitto tra Mosca e Kiev. Il Cremlino continua a prendere di mira le città dell’Ucraina – via terra come a Bakhmut, ma anche per via aerea con raid quotidiani. Kiev strenuamente resiste, e quando ne ha la possibilità contrattacca. Grazie all’impegno e alla determinazione dei suoi soldati a difendere il Paese aggredito, certo, ma anche grazie al decisivo sostegno militare, logistico e finanziario degli alleati occidentali. Ma quanto a lungo può proseguire, a questi ritmi, l’invio di armi all’Ucraina? La domanda – tra le pieghe del sostegno politico indefesso alla causa di Kiev – comincia a farsi largo in maniera sempre più esplicita tra le cancellerie e negli ambienti militari occidentali. Ivi compreso nel Paese che da un anno guida di fatto “da remoto” la risposta ucraina all’aggressione russa, gli Stati Uniti. A dar voce ai dubbi e ai timori dell’Amministrazione Usa e del Congresso è questa mattina un lungo articolo firmato da Missy Ryan sul Washington Post, forse la testata più vicina alla Casa Bianca di Joe Biden. Dove tra visite di fabbriche del comparto, numeri e dichiarazioni di esperti si dà il senso del temuto effetto “smottamento” sulle scorte militari per gli Stati Uniti stessi dopo dodici mesi di cessione di armi e mezzi all’Ucraina.


Nonostante resti il Paese che investe di gran lunga di più nel settore della difesa – oltre 800 miliardi di dollari l’anno – gli Stati Uniti faticano da tempo a sostenere la produzione di quelle armi che danno loro il determinante vantaggio tecnologico sui competitor mondiali, scrive il Washington Post. Una considerazione che la leadership politica del Paese non può più ignorare, di fronte al ritorno “in grande stile” della guerra convenzionale. Il conflitto in Ucraina sembra infatti mandare in soffitta – almeno per il momento – l’era della counter-insurgency che aveva dominato il ventennio post-11 settembre, guidando una revisione non solo dei piani di dispiego militare, ma anche degli organici e delle linee di produzione. E se la guerra convenzionale torna la sfida cui predisporsi – oggi, da lontano, in Ucraina, domani, è il timore, anche più direttamente in altri teatri – anche gli Usa devono fare i conti, letteralmente, con le loro reali capacità di difesa: quelle per se stessi, e quelle “d’avanzo” per sostenere gli alleati.


Dopo un anno di guerra in Ucraina, riassume il Post, gli aiuti militari stanziati dagli Usa per Kiev sono arrivati a quota 30 miliardi di dollari, «per finanziare di tutto, dai visori notturni ai tank». La maggior parte delle armi cedute alle forze di Zelensky è arrivata dai depositi del Pentagono, ma altri sistemi devono essere appositamente prodotti nelle fabbriche americane. E il ritmo richiesto dall’intensità dei combattimenti sul campo non permette soste. Secondo stime in linea con quelle condivise da Gianandrea Gaiani di Analisi Difesa in un colloquio con Open, ogni giorno le forze ucraine sparano una media di 7.700 colpi di artiglieria, a fronte di una capacità di produzione militare americana pre-guerra di non più di 14mila munizioni al mese. Uno sforzo insostenibile anche per la più grande potenza militare al mondo. E se problemi simili affliggono certamente anche l’esercito e la catena di produzione russa, Washington – che considera la principale minaccia strategica di medio-lungo periodo un’altra, ossia la Cina che proprio in questi giorni ha lanciato nuovi target altisonanti di riarmo – non può che essere preoccupata.

Il ritmo della produzione

Secondo un rapporto del Center for Strategic and International Studies (CSIS), il livello di produzione attuale del comparto di difesa Use potrebbe non essere sufficiente ad evitare lo svuotamento delle scorte dei materiali bellici cruciali che il Paese sta cedendo all’Ucraina. E anche se i ritmi di produzione dovessero accelerare, riporta il Washington Post, ci vorrebbero anni, ad esempio, per ricostituire le scorte necessarie di missili anticarro Javelin o di quelli terra-aria Stinger. Ancor più grigie le previsioni per il ripristino degli stock di sistemi d’arma complessi, come i missili teleguidati, gli aerei da combattimento o i droni armati: le valutazioni del CSIS parlano di tempi di sostituzione variabili dagli 8 ai 15 anni, a seconda che il ritmo di produzione proceda “a passo di pace” o “a passo di guerra”.

«Ciò che il conflitto in Ucraina ha mostrato è che, francamente, la nostra base industriale di difesa non era al livello di cui avevamo bisogno per generare munizioni», ha detto la scorsa settimana al Congresso il sottosegretario Usa alla Difesa Colin Kahl, puntando il dito in particolare agli sforzi su cui si sta concentrando l’Amministrazione per accelerare il ritmo di produzione di proiettili d’artiglieria, missili teleguidati e altri armamenti. Sono investimenti «che faranno la differenze di qui a uno, due o tre anni», ha avvertito Kahl, «perché anche se la guerra in Ucraina dovesse concludersi, e nessuno è in grado di predire se ciò avverrà, Kiev avrà bisogno di forze armate in grado di difendere i territori che ha riconquistato».

Il ruolo dell’opinione pubblica

Per far fronte allo sforzo titanico necessario alla nuova era, il Pentagono, riporta il WP, progetta ora di espandere la sua capacità produttiva da 14mila a 30mila munizioni entro questa primavera, e a termine sino a 90mila. E di raddoppiare la produzione dei motori per i missili Javelin sino a circa 4mila l’anno. Ma si tratta di investimenti di lungo termine e costosi, per far fronte ai quali l’Amministrazione non può non tenere in conto il clima politico interno. E il sostegno prolungato alla causa ucraina, pur solido al Congresso, comincia anche oltreoceano a incontrare difficoltà nell’opinione pubblica, specie quando dal piano dei princìpi si passa a quello della loro traduzione concreta. Secondo un sondaggio pubblicato a fine gennaio dal Pew Center, il 40% degli elettori repubblicani – partito di maggioranza ora in Senato – pensa che gli Stati Uniti stiano dando troppi aiuti all’Ucraina. E in un’era di inflazione sostenuta, c’è da chiedersi quanto il governo possa spingere l’acceleratore sulle spese militari, che già rappresentano oltre il 3% del Prodotto interno lordo. Potrebbe essere anche per dar voce a questi dubbi e timori, ha detto a Open Gaiani, che Biden è voluto volare a Kiev poche settimane fa per incontrare a tu per tu Zelensky. Perché il sostegno all’Ucraina non si discute: ma le sue modalità e la sua durata – almeno dietro le quinte – sì.

Foto: EPA/Ting Shen / POOL

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