Sfratti, taglio ai contributi, graduatorie immobili: a Roma torna la crisi abitativa – Le storie

Il reportage di Open tra chi rischia di rimanere senza una casa

La vita di Mikaela cambia nel 2013. In quell’anno, rimane incinta e senza stipendio: quando dà notizia della sua gravidanza, la società per cui lavora decide di non rinnovarle il periodo di prova. Periodo che sulla carta dura sei mesi, ma che viene regolarmente rinnovato da ormai quasi tre anni. Con un bambino in arrivo e senza più sicurezze economiche, decide di fare domanda per ottenere una casa popolare a Roma. Sono passati dieci anni, ma ancora non ha ricevuto risposta: ad oggi risulta al 9.800esimo posto in graduatoria. Solo nella Capitale, le persone ad aver fatto domanda per ricevere un alloggio ERP (Alloggi di Edilizia Residenziale Pubblica, le vecchie Case Popolari) sono 14.300. Ma è un numero che, in linea con il resto d’Italia, rischia a breve di levitare. «Questo governo ha azzerato i fondi contributo affitto e per morosità incolpevole», spiega infatti ad Open Massimo Pasquini dell’Unione Inquilini. Il fondo per morosità incolpevole offriva un contributo fino a 12mila euro per far uscire una determinata famiglia dallo sfratto. Il fondo contributo affitto, invece, serviva a prevenire che ci entrasse. Adesso, prosegue Pasquini, «le 300-400mila famiglie che lo chiedevano ogni anno, e grazie a quello riuscivano a non cadere nel baratro della morosità, non potranno più avere nessun aiuto». E dunque per loro, il rischio di finire per strada è sempre più concreto: la stragrande maggioranza dei provvedimenti di sfratto è infatti indirizzata verso gli inquilini morosi, che cioè non riescono a pagare l’affitto nei tempi concordati. I dati più recenti a nostra disposizione dicono che, solo nel periodo che va dal gennaio al dicembre 2021, sono stati emessi in tutto il Paese 38.163 provvedimenti di sfratto: un aumento del 17.3% rispetto all’anno precedente. In 32.083 casi, lo sfratto ha riguardato inquilini morosi.


Dai divani degli amici alla casa di Tor Bella Monaca

Ma torniamo dalla storia di Mikaela. Da quel lontano 2014, nella sua vita sono successe diverse cose. Nei primi anni del bambino ha provato a sistemarsi per un po’ da sua madre, «ma la situazione non era sostenibile», racconta a Open. Ha chiamato tutti i suoi amici, e vissuto sui loro divani, a turno. «Per fortuna sono piena di gente che mi vuole bene». Ha conosciuto un uomo, «Sandrino», che adesso è il suo compagno: di lui è rimasta incinta quasi tre anni fa. La nuova gravidanza ha reso l’opzione del divano non più accettabile. Trovare una casa senza garanzie reddituali, però, è un’impresa. E Mikaela e Sandro non lavorano: lei deve stare a riposo per la gravidanza. Lui, prima del Covid, aveva trovato lavoro come trasportatore, ma ha perso il posto dopo lo scoppio della pandemia. Di recente, inoltre, gli era stato diagnosticato un enfisema polmonare. Così la coppia si rivolge a un’agenzia, che dopo aver esaminato la situazione propone l’immobile che avrebbe potuto fare al caso loro: un bilocale a Tor Bella Monaca. Ufficialmente concesso a «uso gratuito» per un anno, ufficiosamente pagato in nero (550 euro al mese). I patti erano che dopo un anno sarebbe arrivato un contratto ufficiale, ma i dodici mesi passano, e poi altri due anni. Nel frattempo le condizioni della casa, già terribili, peggiorano: pareti infestate da muffa, tetto che non ripara dalla pioggia, gelo d’inverno e afa d’estate.


«I faldoni sanitari dei miei bambini ti fanno venire i brividi. Samuel ha otto anni, e non sta riuscendo a frequentare la terza elementare: è sempre a casa con la broncopolmonite, la bronchiolite, la polmonite, la laringite, di recente si è preso anche lo streptococco. Suo fratello ha soli due anni, e già inizia ad avere gravi problemi respiratori, sta sempre attaccato all’aerosol. Ho dovuto comprare un termosifone ad olio, sennò manco ci arrivavano al prossimo inverno».

Povertà assoluta

Secondo l’Istat, 889mila famiglie affittuarie vivono con redditi di povertà assoluta, ovvero non riescono a far fronte alle spese minime per potersi permettere una vita dignitosa. Nelle varie uscite che stanno diventando insostenibili per il loro bilancio, rientra anche l’affitto. Negli anni precedenti al Covid, il Ministero delle infrastrutture aveva registrato in tutto il Paese 320mila richieste pendenti per un alloggio popolare. Il dato è citato da Federcasa, che ne prevede però un rapido aumento, a causa della pandemia, del caro affitti e del rallentamento economico in atto dall’inizio della guerra in Ucraina. E già da ora, puntualizza Pasquini, «se non consideriamo solo i comuni ad alta tensione abitativa, ma tutti gli ottomila comuni italiani, il totale sale a 600mila». Non solo. Determinante nello scenario post-pandemico è anche il termine del blocco degli sfratti. Dopo il quale, si è registrata un’impennata nelle esecuzioni del provvedimento: sono cresciute, dal 2020 al 2021, di quasi l’81%, per un totale di 9.537.

Nella platea dei colpiti, c’è anche la signora Rosanna. Classe 1947, vive da oltre vent’anni in una casa ad Acilia (nella periferia romana), di proprietà dell’Inps. «Una casa che non volevo, perché sapevo che non sarei riuscita a pagare il canone di affitto completo. Ma quelli del Comune, a cui mi ero rivolta chiedendo una casa popolare, hanno insistito, incoraggiandomi sul fatto che la mia situazione sarebbe migliorata. Ma che ne sapete voi? È solo peggiorata». Rosanna infatti ha avuto problemi nel sostenere la spesa sin da subito: lavorava come assistente domiciliare per una cooperativa convenzionata con il Comune, «che mi pagava un mese sì e uno no». Ed era sola: suo marito se n’era andato di casa, abbandonando lei e i loro due figli (all’epoca avevano 8 e 10 anni).

«Circondate da case vuote»

Anche in questo caso, sul bagnato sono piovuti i problemi di salute: prima con la diagnosi di un melanoma, poi con quella di una malattia auto-immune, il Lichen Scleroatrofico (LSA). Infine, l’anno scorso, è arrivato lo sfratto esecutivo: l’ufficiale giudiziario ha eseguito tre accessi (tra il febbraio e l’aprile 2022), avvisandola che la prossima volta arriverà con la forza pubblica. «E mi sbatteranno fuori. Non mi hanno detto quando. Questa è una cosa che non mi fa più vivere», racconta a Open. L’eventualità la terrorizza perché non saprebbe dove andare: i suoi figli ormai hanno le loro vite, non avrebbero spazio sufficiente per ospitarla.

Un alloggio popolare potrebbe salvarla, ma lei ha fatto domanda dieci anni fa, «e in graduatoria sono ferma. Anzi, con il passare del tempo anziché salire scendo: prima avevo 263 persone davanti. Ora che ho ricontrollato sono 283». Proprio nello stesso pianerottolo di casa sua, indica una porta parzialmente sfasciata: «Quell’immobile è di proprietà dell’Inps, è vuoto. Hanno provato a forzare l’entrata per occuparla, ma era blindata». Le sue parole riecheggiano in quelle di Mikaela: «Sono circondata di case vuote, sai quanto ci metterei a occuparne una? Ma non voglio, io ho diritto ad avere una casa».

Dai dati più aggiornati, emerge che il 27 per cento delle abitazioni censite in Italia non risulta occupato: in valori assoluti stiamo parlando di quasi 10 milioni di abitazioni su oltre 35 milioni censite. Un paradosso che, secondo Massimo Pasquini, si spiega con l’assenza di politiche abitative efficaci. Una mancanza strutturale, che sebbene acutizzata dalle decisioni recenti, va avanti da decenni. «Il ceto politico-amministrativo non percepisce il problema come urgente, e questo è grave. Nel frattempo, ricade sulle famiglie», aggiunge Pasquini.

La buona volontà di Roma

Il Comune di Roma, però, sostiene di essere più ricettivo. Dall’insediamento della giunta Gualtieri, ci fanno sapere dall’assessorato al Patrimonio e alle Politiche abitative, diverse cose sono state messe in campo e molte altre sarebbero in arrivo. A cominciare da un netto incremento nelle assegnazioni: mentre negli ultimi sei mesi dell’amministrazione Raggi si era verificata la consegna di soli 36 alloggi popolari, spiegano, da quando la Capitale ha cambiato sindaco (nell’ottobre 2021) le case assegnate sono state 451. 100 solo negli ultimi tre mesi. Fino alla fine dell’anno, l’obiettivo è effettuare altre 400 assegnazioni, così da raggiungere il totale di almeno 500 case ERP assegnate in un anno. Un risultato a cui l’amministrazione intende arrivare attraverso diverse strade: informatizzare tutto e rendere più agile la trafila burocratica.

Ma anche acquistare nuovi immobili: sono già stati stanziati a bilancio 220 milioni per comprare di nuove case. E poi c’è il Piano Casa, la delibera strategica contenente la dichiarazione di intenti sul tema della casa, concentrata nel recupero del patrimonio immobiliare esistente, ma anche sull’aumento dello stock di case popolari. Si ipotizza un investimento di mezzo miliardo nell’arco di quattro anni. Le buone intenzioni, l’educazione. Che non bastano a convincere tutti i cittadini: «Il Comune, lo Stato? Non credo più che possano fare qualcosa per me», commenta Mikaela. Lei si affida piuttosto a un deus ex machina: «Magari Francesco Totti legge ‘sta storia e decide di comprarmi una casa».

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