Valerio Lundini, l’università per procrastinare l’adolescenza e la crisi di idee: «Le ho finite. Stavolta ci siamo»

Il comico racconta gli esami («4 in tre anni») e il suo segreto: l’aspettativa bassa

Valerio Lundini nella vita non ha fatto solo il comico. Prima del debutto su Raidue e l’approdo a “L’altro festival” con Nicola Savino ha avuto una lunga carriera universitaria. Mentre oggi, dice in un’intervista rilasciata al Corriere della Sera, ha finito le idee. Mentre conferma che “Una pezza di Lundini” non tornerà più. Nel colloquio con Renato Franco c’è spazio per i ricordi dell’università: «Ho fatto giurisprudenza per tre anni e per me è stata la cosa più difficile del mondo. Tuttora non ho capito nulla di quello che ho studiato, l’enfiteusi e l’usucapione sono concetti che non saprei applicare alla vita vera. Sono stati tre anni drammatici, li ricordo come un periodo che cancellerei».


Gli esami

Alla fine, racconta, «a Legge ho dato quattro esami ma in tre anni, ho passato mesi e mesi a studiare Diritto Privato uno e due senza passarlo». Poi si è iscritto a Lettere. «Ma solo per procrastinare la fine dell’adolescenza». Mentre ha cominciato a capire che faceva ridere «alle elementari, quando ho visto Una pallottola spuntata con Leslie Nielsen. Lì ho intuito che si potevano fare cose estremamente divertenti pur rimanendo dignitosi, senza essere dei clown, senza fare gli scemi o le smorfie. Leslie Nielsen era un tipo di attore che poteva tranquillamente recitare in un western o in un poliziesco e invece faceva questo tenente esilarante, eppure rispettato dai colleghi e ambito dalle donne». Ha cominciato «con la band con cui suono dalla fine del liceo, l’intento era suonare canzoni anni 50 e 60, ma tra un brano e l’altro abbiamo iniziato a dire qualche scemenza».


L’aspettativa bassa

Per Lundini «divertivano il pubblico, ma non c’era l’ansia da prestazione, nessuno pretende che una band ti faccia ridere. Sparavamo cavolate, finché con il tempo sono diminuite le canzoni e aumentate le cavolate. Siamo finiti a fare concerti che avevano due canzoni e introduzioni lunghe tre quarti d’ora». Poi rivela il suo segreto: «Io ho sempre puntato vigliaccamente sull’aspettativa bassa. Facevo la stessa cosa anche nei contesti letterari. Scrivevo fumetti e racconti surreali e li leggevo in posti dove tutti portavano poesie drammatiche. Nessuno mi conosceva, tutti si aspettavano l’ennesimo piagnisteo invece li sorprendevo con una cosa strana. La responsabilità grande purtroppo è adesso, non c’è più l’effetto sorpresa».

La Pezza e le idee

Riguardo la “Una pezza di Lundini”, «io già dopo la prima stagione avevo detto basta, perché ho sempre paura di peggiorare le cose. Poi alla terza è stato giusto fermarla, almeno per un po’. Il rischio è che nel migliore dei casi una nuova stagione sia troppo somigliante alle precedenti. Quindi mi sono detto: perché rischiare di fare l’ennesimo Indiana Jones? La gente a volte chiede che si facciano sequel, nuovi capitoli di un prodotto e poi con lo stesso entusiasmo gli affossano. Io non gliela do questa soddisfazione». Infine, la confessione sulla paura di finire le idee: «Sempre. Già finite. Ogni volta penso che sia la volta vera. E stavolta secondo me ci siamo».

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