Per Maria e Bayro questa è l’ennesima estate per strada. In un parcheggio di Milano Nord, all’interno di un’auto color blu notte hanno costruito il loro precario «rifugio». Tre coperte, un paio di cuscini; i sedili posteriori ribaltati per «stare più comodi». Bottigliette d’acqua, vestiti sparsi. Trent’anni fa sono scappati dalla città di Banja Luka a seguito della guerra in Bosnia-Erzegovina. Il ritorno qualche anno dopo, poi il nuovo addio alla città natale. «Noi siamo musulmani bosniaci, molti di noi sono fuggiti dal Paese», dice Bayro. Durante il conflitto una «bomba serba» ha distrutto la loro casa. «Bum, bum, bum», gli fa eco sua moglie. «Nell’esplosione sono morti i nostri due figli e mio fratello», continua. «Ora viviamo qui», indica con la mano il sedile sul quale è seduto. «Nostra figlia ha un appartamento a Milano, ma è troppo piccolo per ospitarci», dice. Presto le cose potrebbero però cambiare. «Abbiamo parlato con il Comune e dovrebbero darci una casa», conclude, sorridente, l’ottantenne. «Preparati Bayro, andiamo a fare la doccia», gli urla un volontario dei City Angels, l’associazione che si prende cura degli homeless. Siamo scesi in strada con loro. Un’ambulanza al cui interno è posizionata una doccia e tutto il necessario per l’assistenza, è il loro mezzo di trasporto. «Quello di stasera è un servizio un po’ particolare», spiega uno degli ideatori del progetto. «Il nostro scopo è quello di occuparci della parte igienica». L’unità primo intervento doccia, questo il suo nome, è l’unica su Milano. «Noi andiamo dalle persone in strada e gli tagliamo barba, capelli, unghie e gli facciamo la doccia», conclude.
I numeri in aumento, soprattutto tra i giovani: la storia di Olga
Da Milano nord fino ai quartieri più a sud della città, tante sono le persone che vivono in strada e quelle che decidono di fare affidamento sui servizi. Si tratta di uomini e donne che accanto a un disagio di tipo abitativo «hanno una serie di problematiche legate alla famiglia, al lavoro, al reddito; ma anche a dipendenze e alla salute mentale», sottolinea a Open Caterina Cortese, responsabile della Federazione italiana degli organismi per le persone senza dimora (fio.Psd). Nonostante sui numeri ci sia un «grande interrogativo», spiega l’esperta, gli homeless nel capoluogo lombardo sono circa ottomila per l’Istat (96mila in Italia nel 2021; nel 2015 erano 50mila); quasi tremila per il Comune di Milano (587 in strada; 2.021 in strutture di accoglienza notturna nel 2018). Sono italiani, molti stranieri e con un’età media di 41 anni. Perlopiù uomini, rispetto alle donne. Un numero, probabilmente sottostimato, che varia di anno in anno. «Definire quantitativamente e qualitativamente il fenomeno è impresa ardua», ci spiega Paolo Moreschi della fio.Psd. «La cosa certa è che in questo momento tutti quanti nei servizi abbiamo la percezione che il fenomeno stia aumentando», dice. «Dopo il periodo della pandemia da Covid-19 – continua – c’è stato un incremento e, soprattutto, un coinvolgimento importante anche di fasce che prima non erano interessate dall’homelessness».
Tale aumento ha coinvolto, in particolare, i giovani. «Soprattutto a Milano», gli fa eco Cortese. Persone che «escono dalle comunità, dalle case famiglia, da percorsi di adozione fallimentari». Sono giovani, tra i 18 e 25 anni, in cerca di loro stessi, di una loro autonomia. «Non lavorano e non studiano», quelli che Istat definisce Neet (Not engaged in Education, Employment or Training), «e che utilizzano i servizi in maniera funzionale e intermittente a seconda delle loro esigenze», spiega. Un fenomeno dinamico e che in Europa viene definito «nascosto», difficile da tracciare. All’interno di questa categoria, definita Hidden Homelessness, rientrano anche le donne che «molto spesso si appoggiano ad altre reti informali soprattutto nel caso in cui sono vittime di tratta o violenza domestica», sottolinea la responsabile Osservatorio fio.Psd. In questo caso, infatti, alla mancanza abitativa si aggiungono tutta una serie di fragilità che vanno affrontate con i servizi specialistici. Olga, per esempio, viene dalla Moldavia. Avrà una quarantina di anni. Forse più, forse meno. Difficile da decifrare. Vive su una panchina di Corso Buenos Aires, ai piedi delle scintillanti vetrine del centro di Milano. La sera del servizio non si trovava. «Ha problemi di alcool e spesso si piazza fuori dai bar del quartiere», spiegano i volontari. Un suo “amico”, anche lui senza dimora, ci confida che si è allontanata poco prima del nostro arrivo. La troviamo appoggiata a un muro, a pochi isolati dalla stazione metropolitana di Lima. A stento riesce a stare in piedi. I volontari la scortano fino al mezzo dove potrà farsi una doccia, cambiare i vestiti e sistemarsi i capelli color giallo acceso. «Noi usciamo con un team formato sia da uomini, che da donne», dicono i City Angels. «Questo ci permette di dividere il lavoro: le donne offrono il servizio alle persone dello stesso sesso. Gli uomini, pure», conclude. Dopo un dibattito sulla scelta degli abiti, Olga esce dall’ambulanza. «Sono contenta di aver fatto la doccia, grazie», dice, pettinandosi i corti capelli. Prende una bottiglietta d’acqua, un panino e ritorna sulla panchina. «L’ultima volta che le abbiamo fatto la doccia ci siamo accorti che era completamente bruciata a causa della continua esposizione al sole», affermano i volontari.
«La strada uccide anche d’estate»: la storia di Nur
Colpi di calore, insolazioni, disidratazione. Sono solo alcune della problematiche a cui i senzatetto devono far fronte nei mesi estivi. L’estate, con le alte temperature, gli eventi estremi, l’assenza di volontari e la chiusura dei molti centri di accoglienza, aperti solo nei mesi freddi, può essere ancora più brutale. «D’estate non si pensa a loro – dice il presidente dei City Angels, Mario Furlan -. È vero che nei mesi estivi non rischiano di morire assiderati per strada. Ma è anche vero che con i cambiamenti climatici e gli eventi estremi sopraggiungono ulteriori problemi». La notte del nubifragio, tra lunedì 24 luglio e martedì 25, quando tutta Milano si è svegliata alle 4 in punto, Nur (nome di fantasia) si è rifugiato all’interno della stazione di Porta Genova. Sopravvive su una panchina lì di fronte. «Posso tagliare i capelli?», ci chiede. «Ho caldo, vorrei tagliarli tutti». Nur è in Italia da 10 anni; da 7 mesi si trova in strada. La sua famiglia è in Egitto: «Sono solo a Milano», confida. «Ma io nei mesi invernali lavoro, in questo momento sono fermo perché d’estate la ditta è in ferie», precisa. Prima aveva una casa. «Poi il proprietario mi ha mandato via e ora dormo qua», indica con la mano destra l’area circostante la stazione. Durante quella terribile nottata «noi abbiamo operato in diverse zone della città – sottolinea Furlan – e pure le sere dopo. Le persone senza dimora ci chiedevano un ricambio, sacchi a pelo asciutti e degli asciugamani perché erano bagnati fradici. Gli abbiamo detto di non stare vicino agli alberi, di rifugiarsi in posti sicuri».
Il problema “estivo” delle persone senza dimora è accentuato dal fatto che d’inverno ci sono molti più dormitori aperti «e con una capienza più elevata, circa 1500-1600 posti in tutta Milano», spiega il presidente. Per l’ingresso è necessaria «un’intermediazione dell’assistente sociale e del mediatore culturale, poi uno screening sanitario». Prima, però, bisogna convincere queste persone che è «molto più sicuro dormire in una struttura», conclude Furlan. La cosa triste dei mesi estivi «è che ci sono più morti tra le persone senza fissa dimora», spiega Cortese. Da inizio 2022, secondo i dati della fio.Psd, ne sono decedute 393 (109 d’estate, 101 in autunno; 97 in primavera e 87 d’inverno). Quasi una al giorno. L’incremento è del 55% rispetto al 2022; dell’83% rispetto a tre anni fa. I servizi migliorano, ma non sono ancora sufficienti. «L’obiettivo – sottolinea l’esperta – è dare un’offerta continuativa, con una responsabilità programmata del Comune che non si può basare solo sul lavoro dei volontari, che giustamente d’estate vanno anche loro in vacanza, perché queste persone hanno bisogno di assistenza tutti i giorni».
Le politiche abitative e l’approccio emergenziale: la storia di Ahmed
Dentro la stazione di Porta Genova, nascosto tra i tralicci dell’alta tensione, vive anche Ahmed (altro nome di fantasia). È disteso, forse sta dormendo. Ha il volto e il corpo coperti da una grande cartone. «Gli avevamo sistemato tutta quest’area e portato coperte, cuscini e tutto il necessario per rendere questo posto almeno un po’ “vivibile”», dicono i volontari. Ma il nubifragio gli ha portato via tutto. Con fatica, Ahmed si alza e con l’aiuto dei City Angels attraversa i binari chiusi della stazione. Entra nella doccia, ed esce “nuovo”. «Io vengo dal Marocco», dice. Alla domanda se ha fatto richiesta per una casa risponde «No, non so come fare, ma vorrei farla». A livello pratico, gli homeless hanno diversi punti di accesso al sistema dei servizi. Ma vista la complessità e pure il disagio delle persone in strada «non si può pensare che basti dire: “Là a quell’orario c’è un punto di accesso, vai e iscriviti”», dice Moreschi dell’Osservatorio fio.Psd. Stiamo parlando di persone in alcuni casi «con gravi problemi psico-fisici – continua -, con livelli persecutori in alcuni casi importanti, con problemi di deambulazione». E molto spesso i numeri delle persone in strada sono così alti da non riuscire a soddisfare tutte le richieste di accesso a una soluzione abitativa e a un percorso personalizzato. Nonostante queste problematiche «il fenomeno degli homeless – ribadisce l’esperto – non è immutabile» perché «le risposte – continua – sarebbero tante: dovremmo innanzitutto pensare che sia possibile garantire il diritto alla casa per tutti». Eppure, la sfida dell’accoglienza sembra incagliata ancora in una logica di tipo emergenziale «che deve essere superata», dice Moresco. «Il concetto è spostare l’attenzione dall’intervento necessario, che è il dormitorio, a un intervento strutturale che va verso la presenza di soluzioni abitative il tempo necessario per uscire dalla condizione di bisogno». Ecco che allora, il “tetto sopra la testa” diventa così «il punto di partenza per poi integrare all’interno la possibilità di un intervento sociale, sanitario, lavorativo, laddove ci sono le condizioni, e un intervento reddituale che non sia solo quello lavorativo», conclude l’esperto.
Il processo migratorio nel vissuto degli homeless
Maria, Bayro, Olga, Nur e Ahmed sono stranieri. Nei servizi la componente di non-italiani «è molto rilevante», dice Moreschi (il 58% secondo la rilevazione Istat del 2015). Una popolazione che porta con sé «esigenze diverse di tipo sociale, economico o di salute, ma anche legate alla tutela dei diritti umani e internazionali», replica la responsabile fio.Psd. L’intersezione tra migrazione e homelessness è visibile in occasione di grandi flussi legati a conflitti, pandemia, cambiamenti climatici e in coincidenza con tutte le riforme del sistema di accoglienza migratorio. In particolare, «l’inasprimento del conflitto siriano e l’aumento dei flussi migratori dalle rotte balcaniche, le vulnerabilità emerse nel corso della pandemia e, da ultimo, i profughi della guerra in Ucraina rendono più complesso il quadro», spiega Cortese. Siamo di fronte a persone «vulnerabili» che, oltre alla problematiche di povertà, salute fisica e magari psichica (vissuti post-traumatici), devono far fronte a condizioni giuridiche precarie e instabili. «New comers (I nuovi arrivati) che non hanno la possibilità di ottenere nel Paese di arrivo regolare permesso di soggiorno che rischiano di alimentare il fenomeno degli overstayers, una collettività di irregolari che, pur avendo perso il titolo di soggiorno, permane nel Paese di arrivo in condizioni di vita precarie e insicure», conclude l’esperta.
La narrazione (sbagliata) degli «invisibili»
Ciò che abbiamo osservato in strada è, però, solo la punta dell’iceberg di un fenomeno che ha numeri ben più elevati. Lì vediamo la parte più marginale, più isolata, più difficile da agganciare. Ma poi c’è tutta una popolazione che vive nei servizi e che deve essere aiutata a rientrare nel sistema. Ma si tratta, in entrambi i casi, di un fenomeno «invisibile» solo per chi si gira dall’altra parte. La realtà è sotto gli occhi di tutti, i numeri pure. Non è necessario avventurarsi nei quartieri più periferici della grandi città. La narrazione sintetizzata da Marco Berry nel suo programma televisivo dei primi anni 2000 e dal titolo Invisibili non regge più. «È necessario un superamento del termine che è abbastanza un controsenso e ripropone cliché di lettura del tipo “sono persone che hanno scelto questa vita o non sono meritevoli di un aiuto perché non vogliono andare a lavorare”», dice Moreschi. Esiste tutta una narrazione che è necessario superare e, secondo l’esperto, «smontare a colpi di contenuti». Quello che dovremmo rimettere sul tavolo della discussione è «un diritto di cittadinanza che non è legato al merito – conclude -, ma al fatto di essere cittadini anche laddove si è cittadini con problemi».
Leggi anche: