Il presidente Boric e il golpe in Cile del ’73: «Il rispetto per i diritti umani non si trasmette per osmosi, ogni generazione lo impara di nuovo» – L’intervista

Il giovane presidente del Cile, classe 1986: «Credo che la maggior parte delle persone oggi non veda il senso della democrazia perché non la vive». L’anticipazione dell’intervista per Feltrinelli

Domani, in occasione del 50esimo anniversario del golpe in Cile, la Fondazione Feltrinelli pubblica un libro intervista curato da Gloria de la Fuente e Juan Pablo Luna, Cile un Popolo in movimento. La pubblicazione è accompagnata dall’uscita sul sito della fondazione di uno speciale sul 50enario, con un podcast dedicato ad Isabel Allende. Pubblichiamo in anteprima un intervista al presidente del Cile, Gabriel Boric, presente nel volume da domani in libreria, realizzata dai due curatori.


Partiamo da lontano. Come arriva alla politica? Era la fine degli anni ’90?


«[…] Ho cominciato a tredici anni, mi pare, militando in un’organizzazione molto piccola ma con un nome roboante: Intransigencia Izquierdo Insurreccionalista. […] Ricordo che in quel periodo ci fu l’attacco alle Torri Gemelle, e noi cercavamo di capire il ruolo degli Stati Uniti nel mondo. Ci scambiavamo libri, musica. È stato quello il mio primo approccio alla militanza. La mia preoccupazione politica è nata nello stesso periodo e incoraggiata dalla lettura sulla storia del Cile. […] Quando andavo a scuola – penso che la mia sia stata l’ultima generazione per cui era così – i programmi scolastici arrivavano fino al 1970. Non venivano trattati né il governo Allende né la dittatura, quindi era poco quello di cui si poteva discutere. Ricordo anche che c’era una materia chiamata “Ricorrenze”. Era separata da Storia, un’appendice in cui venivano esposti fatti molto specifici, come questa edizione della storia basata su una persona e un fatto. Una volta, sicuramente sarà stato a proposito dell’11 settembre 1973, dissi una cosa del tipo “Pinochet è cattivo”, e la mia preside mi rimproverò, mi disse che in quell’aula c’erano figli di militari, che non avrei mai più dovuto fare un’affermazione del genere. Questo accadeva nel 1996.

[…]

Ero un bambino e guardavo ancora le scimmiette dei cartoni animati. A casa di mia nonna a un certo punto si interrompe la trasmissione che stavamo guardando e al suo posto fu mandato in onda il processo, che durò a lungo. Dissi a mio padre: “Perché mettono il telegiornale al posto dei cartoni?”. Lui mi rispose – queste sono le sue parole quasi testuali – ricordo per filo e per segno le sue parole: “Figliolo, abbiamo aspettato così tanto per la giustizia che vale la pena aspettare qualche minuto in più”».

Perché non è entrato in un partito tradizionale?

«A Punta Arenas, per quanto mi ricordo, non c’erano sedi delle giovanili dei partiti. Poi ho frequentato la facoltà di giurisprudenza. Sono entrato nel 2004 e a quel tempo c’erano ancora i residui delle mobilitazioni del 1997 a favore della democratizzazione ed era in corso una discussione sugli statuti. L’Università del Cile è stata la prima ad avere statuti democratici e questo solo nel 2005-2006. A quel tempo ci battevamo per la tariffa differenziata, ed eravamo tutti molto vicini al concetto di meritocrazia, che poi avremmo messo in discussione. Quando ero una matricola ho tenuto un discorso in una delle prime assemblee, e lì tutti i partiti, come uccelli rapaci in cerca di buoni oratori, mi hanno avvicinato […]».

Passiamo ora al tema al centro del libro, che ha a che fare con i movimenti del 2006-2011. Quanto pensa, che siano stati decisivi per spiegare quanto è accaduto durante le proteste sociali del 2019? Cosa è successo a livello politico istituzionale? Dove sono annidati i problemi e cosa non si è visto arrivare?

«Non è una domanda facile, non si può rispondere con un sì o un no, se siano stati decisivi o meno, perché penso che il 2019 abbia caratteristiche molto diverse dal 2006 e dal 2011. Il 2006 e il 2011 possono avere caratteristiche da un certo punto di vista comuni, ma il 2019 trabocca da tutte le parti. Penso che potremmo parlare di più di questo. Il 2006 e il 2011 hanno molto a che fare con la fine del sistema delle due coalizioni che aveva retto il Cile, e dunque con la creazione del Frente Amplio […]».

C’è una linea di continuità tra quel movimento e il 2019?

«[…] C’è una linea di continuità nel senso che la rivolta sociale del 2019 era qualcosa che avevamo previsto. Dicevamo in continuazione: “Qui si arriverà una crisi sociale se…”, ma non sapevamo come darle un’organizzazione una volta esplosa, né come gestirla una volta in corso. Così un ministro di Piñera e un deputato mi chiamarono il 18 ottobre, era un venerdì, alle quattro del pomeriggio, e mi dissero qualcosa del tipo: “Ora, per favore, fermatevi. Siamo disposti a rivedere il tema dei biglietti a 30 pesos”. E io gli ho risposto: “Noi non c’entriamo niente, siamo il vagone di coda. Partecipiamo, ma non siamo noi ad animare la protesta”. E allora ho realizzato che a La Moneda non capivano cosa stesse succedendo. Ma non c’è una vera continuità organica tra quelli che erano i leader nel 2006 e nel 2011 e il 2019. Nel 2019 non c’era una vera e propria leadership organica […]».

Quanto pensa che sia stata innovatrice la generazione che lei rappresenta? È molto evidente che lo sia stata, visto che stiamo parlando con il presidente della Repubblica, ma a ogni modo…

«Il fatto di essere presidente della Repubblica non significa automaticamente essere un innovatore. Abbiamo avuto accesso a una carica istituzionale che ha un grande peso da Blanco Encalada in poi. Credo che la mia generazione abbia pretese innovative molto più grandi (voglio stare attento perché potrebbe sembrare arrogante, ma non è questo il caso) di quelle che aveva, per esempio, la generazione del ‘68. Penso a cosa ci hanno lasciato le proteste in Francia, a Berkeley e a Tlatelolco, nel senso che noi abbiamo subito scelto, abbiamo avuto la consapevolezza – giusta o sbagliata lo si potrà dire in futuro – che dovevamo contendere le istituzioni […]».

Una sua compagna diceva: “Abbiamo trasformato la società senza trasformare la politica”. È d’accordo con questa visione? In altre parole, ciò che è stato realizzato in questi anni è stato per ora il superamento dell’ostacolo di ciò che era possibile pensare?

«Sì, superare l’ostacolo del neoliberismo, ma forse siamo inciampati e siamo finiti in un individualismo liberale più che… Non sono sicuro che sia il cambiamento culturale che volevamo, che invece avrebbe a che fare con l’idea – alla base sia del cristianesimo che del socialismo – di comunità. Un’idea lontana da ciò che sta accadendo oggi […]».

Passiamo al processo costituente, a proposito dei trent’anni del percorso istituzionale. Come giudica il processo costituente e perché questo cambiamento costituzionale è importante alla luce di questi trent’anni, o quarantasette se si tiene conto della dittatura?

«[…] (La riforma del 2005) è stata certamente importante, ma limitata alle enclave più autoritarie, cioè i senatori nominati, il Consiglio di Sicurezza Nazionale, la decadenza dei comandanti in capo e un paio di altre cose. Ma la parte strutturale, quella che non aveva nulla a che fare con le libertà politiche in quanto tali – quelli che sono stati chiamati, non ricordo da chi, i sette pilastri della dittatura, il modello forestale, le Afp, l’Isapres, eccetera – era ancora presente. Quindi il processo costituente come aggiornamento del patto sociale mi sembra davvero importante e sono tra coloro che ritengono che la Costituzione debba stabilire le regole fondamentali dell’ordinamento giuridico. […] Uno dei problemi del processo costituente, o del tentativo fatto dall’Assemblea costituente (bocciato in sede di referendum ndr), era la sua eccessiva completezza, con intuizioni che credo fossero corrette e che condividevo, ma che non lasciavano spazio al dubbio. Sottraevano spazio alla politica e credo che i temi costituzionali dovrebbero essere più limitati e basati su principi generali […]».

Se dovesse identificare il problema principale della democrazia in Cile oggi, quale pensa sia il più rilevante?

«[…] Credo la maggior parte delle persone oggi non veda il senso della democrazia perché non la vive. Ha a che fare con una questione culturale: le conquiste ottenute non sono associate alla democrazia e credo che il tentativo degli ultimi anni di sostituire la democrazia con la tecnocrazia abbia avuto una grande responsabilità in questo. Inoltre, oggi c’è troppo individualismo. E ci sono luoghi in cui altre forze, in particolare i cartelli della droga o la criminalità organizzata, stanno sostituendo lo Stato. E se lo Stato non è capace di intervenire, anche dove non prendono piede, per esempio, i cartelli della droga, c’è comunque un vuoto […]».

Quest’anno ricorrono i cinquant’anni dal colpo di Stato e probabilmente c’è un processo di consapevolezza che dobbiamo affrontare, in quanto società, rispetto a quel momento storico. Come vede questo processo per quanto riguarda la memoria da un lato e l’impegno affinché non si ripeta dall’altro, in funzione delle sfide di cui abbiamo discusso in questa nostra conversazione?

«Vogliamo che al centro dei questa commemorazione ci sia la riflessione su memoria, democrazia e futuro. Abbiamo cercato di difendere – e l’ho fatto in modo esplicito nei forum internazionali – il rispetto incondizionato dei diritti umani, che di tanto in tanto alcune parti politiche mettono in discussione. […] Quindi dobbiamo raccontare che in questi cinquant’anni in Cile ci sono stati detenuti desaparecidos, anche se il Cile lo sa già, perché l’importanza dei diritti umani è qualcosa che non si trasmette per osmosi di generazione in generazione. È qualcosa che ogni generazione deve imparare. E c’è una frase, non ricordo di chi fosse, che dice che i tempi duri creano uomini duri che creano tempi buoni che creano uomini deboli, ed è per questo che è molto importante intendere noi stessi come pezzi di una storia più lunga e imparare a sapere sempre apprendere dalla storia. […] Nulla giustifica la violazione dei diritti umani. Credo che non ci sia alcuna giustificazione possibile per il colpo di Stato. E credo anche che ciò che ha fatto il processo di rinnovamento socialista, inteso come processo riflessivo del rinnovamento socialista, il dibattito che si è svolto all’interno delle diverse correnti sull’esperienza di Unità Popolare, abbia un valore enorme e sia qualcosa da riscattare anche in questi tempi […]».

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