Matteo Messina Denaro è morto da irriducibile. Quali segreti e misteri si porta nella tomba il boss di Cosa Nostra

L’ultimo dei Corleonesi a piede libero era stato arrestato a gennaio dopo trent’anni di latitanza. Non ha collaborato con gli inquirenti fino alla fine. «Io non mi pentirò mai»

Alla fine hanno vinto le sue radici. Matteo Messina Denaro è morto stanotte, 25 settembre, all’ospedale de L’Aquila, dove era ricoverato mentre scontava l’ergastolo al 41 bis nel carcere de Le Costarelle. Il boss di Cosa Nostra era affetto da un tumore al colon. L’ultimo dei Corleonesi a piede libero era stato arrestato il 16 gennaio 2023 a Palermo davanti alla clinica La Maddalena, dove si stava sottoponendo a chemioterapia. Esattamente trent’anni e un giorno prima nella stessa città era stato catturato Totò Riina. L’arresto del Capo dei Capi chiudeva un’epoca della mafia: quella della sfida allo Stato con le stragi di Chinnici, Falcone e Borsellino. Venerdì 19 settembre era stato dichiarato in coma irreversibile. I medici, sulla base delle indicazioni date dal paziente, che nel testamento biologico ha rifiutato espressamente l’accanimento terapeutico, nei giorni scorsi gli hanno interrotto l’alimentazione.


30 anni di latitanza

La cattura di ‘U Siccu ha chiuso i conti con la banda dei Corleonesi e con la loro strategia residua: quella del terrorismo e dell’attacco al cuore delle istituzioni. Secondo alcune indiscrezioni Messina Denaro ha chiesto di non essere rianimato in caso di necessità. Negli otto mesi scarsi in cui è stato in carcere non ha mai voluto collaborare con i magistrati per fare luce sulla stagione delle stragi di mafia. Il padrino di Castelvetrano si è portato tutti i segreti con sé. Come aveva fatto suo padre, Don Ciccio, morto in latitanza e catturato «soltanto da morto», come disse la sua vedova nel giorno del suo funerale il 3 dicembre del 1998. E come hanno fatto gli irriducibili Corleonesi, da ‘U Curtu a Binnu ‘U Tratturi.


Carabinieri | Foto nella casa di Matteo Messina Denaro a Castelvetrano, che ritraggono lui e il padre

Le stragi di Capaci e via D’Amelio

Con la morte del reo si chiude anche il processo per le stragi di Capaci e via D’Amelio. In primo grado e in appello Matteo Messina Denaro è stato condannato all’ergastolo come uno dei mandanti. Le motivazioni del primo grado si basano principalmente sulla partecipazione del figlio di Don Ciccio alla riunione a Castelvetrano in cui si delinea la decisione di uccidere Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Una riunione che il collaboratore di giustizia Nino Giuffré ha raccontato così: «È una riunione dove regna il silenzio più assoluto. Si era ormai coscienti che si andava a uno scontro totale che era l’inizio della fine di Cosa Nostra». Ma se qualcuno avesse qualche dubbio sulla complicità di Messina Denaro, può ascoltare quello che ha raccontato un altro pentito, ex grande amico di Matteo, ovvero Francesco Geraci, durante il processo.

Non prendere l’autostrada

«Una volta lui mi ha detto di non recarmi più a Palermo in autostrada. Io dissi che siamo tre fratelli che andiamo tutti i giorni a Palermo. E lui “Vabbeh per adesso non ci andare”. Io gli risposi “Impossibile. Noi per lavoro ci dobbiamo andare”. E allora lui si raccomandò: “Vabbeh, io ti dico esci a Partinico, Alcamo e fai la strada vecchia per andare a Palermo”. Quando c’è stata la strage mi ha detto “a”Adesso puoi andare a Palermo” e ha fatto un sorriso. Io ho capito tutto», testimonia Geraci. Il dettaglio è riportato anche nella terza puntata di “Radici“, il podcast di Open sulla storia di Matteo Messina Denaro.

Il figlio di Don Ciccio

Matteo Messina Denaro nasce a Castelvetrano il 26 aprile del 1962. È il secondo figlio maschio di Francesco Messina Denaro, ufficialmente campiere nei terreni della famiglia D’Alì, la proprietà più grande di tutta la Sicilia. In realtà capo di Cosa Nostra nel paese e poi in tutta la provincia per volere di Totò Riina. Don Ciccio è l’uomo di fiducia di ‘U Curtu a Trapani. E la Belva tiene anche suo figlio tra le ginocchia, quando le Famiglie si incontrano per gli auguri di Natale. ll padre gli insegna a sparare a 14 anni. Quando non ne ha compiuti nemmeno 18 si ritira da scuola. Perché nel frattempo ha vissuto il battesimo del fuoco per un mafioso: ha commesso il suo primo omicidio. Lo racconta un altro pentito, Giuseppe Ferro. Nell’occasione, ricorda, lui aveva paura ma c’era suo padre.

Il soldato di Zu’ Totò

Quando i poliziotti e i giudici cominciano a dare la caccia al padre, Don Ciccio scompare. E al suo posto Matteo eredita il lavoro del padre nelle tenute dei D’Alì. L’azienda agricola gli paga i contributi, ma lui al lavoro non ci va mai o quasi. Per conto del padre e di Riina partecipa alle faide e comincia a scrivere il suo romanzo di formazione criminale all’interno di Cosa Nostra. Quando la Belva dichiara guerra allo Stato Matteo è uno dei suoi soldati più fedeli. Insieme a Giuseppe Graviano all’inizio del 1992 è a Roma per progettare gli omicidi di Falcone, del ministro della Giustizia Claudio Martelli e dei giornalisti Maurizio Costanzo e Michele Santoro. Quando torna a rapporto dal Capo dei Capi scopre che ha cambiato idea. Falcone e Borsellino moriranno in Sicilia. Riina finirà in arresto il 15 gennaio del 1993 al primo incrocio davanti alla sua villa in via Bernini a Palermo. La cattura getta Cosa Nostra nel panico.

Terremoto

Bernardo Provenzano, che è diventato il più autorevole dei Corleonesi in libertà, sostiene che la lotta allo Stato sia stata un errore. Giovanni Brusca è d’accordo. Il cognato di Riina Bagarella, i Graviano e Messina Denaro vogliono continuare con le bombe. Alla fine la mediazione la trova Binnu: ok agli attentati ma fuori dal territorio della Sicilia. L’obiettivo è ancora quello di ‘U Curtu: fare la guerra per fare la pace. Ovvero costringere lo Stato a intavolare una trattativa. In molti hanno messo in dubbio che questa fosse una strategia soltanto di Riina. Il professor Salvatore Lupo, che ha raccontato 160 anni di storia della mafia tra Sicilia e America, ha spiegato a Open che non bisogna considerare i ragionamenti fatti con il senno di poi. Ma è necessario invece guardare il tutto con una prospettiva storica: «Innanzitutto perché la gente sbaglia. I fautori di complotti sbagliano perché i risultati sono imprevedibili partendo dal loro punto di vista. Ciò detto, da quindici anni Riina faceva così e gli andava bene. E allora perché ha fatto uccidere Dalla Chiesa, Mattarella, Chinnici?».

E ancora: «Noi non dobbiamo pensare che i soggetti siano mossi sempre da reazioni razionali. Quando Riina nelle intercettazioni in carcere dice “che bello il botto”, ragiona come un terrorista. Si eccita per il botto. Ma i terroristi esistono. (…) I terroristi esistono eccome. C’è chi ha spedito aerei contro il World Trade Center. Non pensava che avrebbero reagito? Certo, è andata così. Commisurare il senso di un’azione solo dagli effetti che razionalmente ne sono derivati è sbagliato. Tutti ragioniamo con l’idea del prima, non con l’idea del dopo

Cosa Nostra stragista

Gli obiettivi della strategia del terrore di Cosa Nostra nel 1993 li propone proprio ‘U Siccu. È lui che si presenta con dépliant e guide d’arte per scegliere dove colpire. A Roma in via Fauro va in scena il piano suo e dei Graviano per uccidere Costanzo, ma con altri interpreti. L’attentato fallisce. Le stragi a Milano, Roma e Firenze fanno un totale di dieci morti, tra cui una bambina di pochi mesi. Ma nel 1994 fallisce l’attentato ai carabinieri allo stadio Olimpico. E con l’arresto dei fratelli Graviano a Milano finisce la strategia della tensione di Cosa Nostra. Qualche giorno prima di finire in carcere Madre Natura incontra in un bar di via Veneto a Roma Gaspare Spatuzza. Gli confida che Cosa Nostra sta per abbandonare la strategia delle stragi. Perché hanno trovato un accordo politico per risolvere tutti i problemi. Lo hanno trovato con «quello di Canale 5», cioè Berlusconi. Tramite «un compaesano loro», ovvero Dell’Utri. Nel 2020 Graviano confermerà gli incontri con Berlusconi ma non la presenza di Dell’Utri. E specificherà che c’erano anche altre persone con loro. Dal gennaio del 1994 Graviano è in carcere. Mentre Matteo Messina Denaro, parlando nei suoi pizzini di quelli che dirigono il paese, dirà che non vede uomini. Ma soltanto «molluschi, opportunisti che si piegano come fuscelli al vento». Tra questi il peggiore è proprio il Capo. Definito come «un volgare venditore di fumo».

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La latitanza

Da quel momento Matteo Messina Denaro diventa “L’invisibile” o “Il camaleonte”, come lo chiamano due libri che racconteranno le sue gesta. Gli inquirenti per dargli la caccia seguiranno i piccioli, come insegnava Falcone. Negli anni sequestrano ai suoi prestanome beni per un controvalore di 4 miliardi di euro. I rapporti investigativi seguiranno le sue tracce dalla Sicilia a New York, dagli hotel di Dubai fino alle coste della Tunisia. Si parla di investimenti per cinque milioni di euro in aziende di pollame in Venezuela e di partecipazioni a joint venture con la ‘Ndrangheta per i villaggi turistici della Tunisia. Nell’ordinanza che ha portato in carcere i suoi fiancheggiatori a Mazara del Vallo però si scrive che il Boss ha passato gran parte dei suoi trent’anni di latitanza nel suo territorio. Protetto dalla rete paramafiosa che aveva ereditato e in parte contribuito a costruire.

La malattia

Ma è la malattia che alla fine lo porta in carcere. Il professor Bruno Annibale, professore ordinario all’università La Sapienza e presidente della Società italiana di gastroenterologia ed endoscopia digestiva, ha spiegato a Open che il tumore al colon che ha colpito il boss era già ad uno stadio molto avanzato quando è stata scoperta. E che probabilmente se i medici fossero intervenuti prima avrebbe potuto vivere di più.

Per questo quando scopre di avere un cancro a uno stadio avanzato ‘U Siccu si rivolge alla sua rete di protezione amicale e massonica e alla sanità pubblica e non decide di andarsi a curare dall’altra parte del mondo. Semplicemente non può farlo. Perché è ricchissimo, sì, ma gli investimenti si trovano in centinaia di canali che non è possibile liquidare così facilmente. A meno di non smantellare tutto il suo impero economico. E poi ha capito che gli resta poco tempo da vivere. Deve sistemare il suo tesoro, ovvero fare in modo che l’organizzazione abbia il suo. E badare all’eredità.

Radici

In carcere Matteo Messina Denaro ha avuto la possibilità di incontrare sua figlia. Lorenza Alagna è nata nel 1996 dalla relazione con Franca Alagna, quando il padre era già latitante. Durante quell’incontro il padrino ha espresso la volontà di darle il suo cognome, riconoscendola ufficialmente. I rapporti con lei sono sempre stati difficili, se non impossibile. Perché Lorenza ha avuto il coraggio di lasciare la casa natale del Padrino quando ha compiuto diciotto anni insieme alla madre. Oggi ha un compagno e un figlio. A lei papà Matteo ha riservato parole struggenti nella corrispondenza con “Svetonio”: «Io non conosco mia figlia. Non l’ho mai vista. Il destino ha voluto così. Spero che la vita si prenda tutto da me per darlo a lei (…). Non conoscere i propri figli è contro natura».

Mistero Messina Denaro

Durante gli interrogatori in carcere Messina Denaro si è comportato come un irriducibile, negando anche l’evidenza. «Io non mi farò mai pentito. Io mi sento uomo d’onore ma non come mafioso, Cosa nostra la conosco dai giornali. Magari ci facevo affari e non sapevo che era Cosa nostra». E ancora: «La mia vita non è stata sedentaria, è stata una vita molto avventurosa, movimentata. Non voglio fare il superuomo e nemmeno l’arrogante, voi mi avete preso per la mia malattia». Per spiegare la strategia dell’ultima parte della sua latitanza ha usato la metafora dell’albero nella Foresta: «Ora che ho la malattia e non posso stare più fuori e debbo ritornare qua…», si è detto dopo aver scoperto di avere il tumore. «Allora – ha raccontato – mi metto a fare una vita da albero piantato in mezzo alla foresta, allora se voi dovete arrestare tutte le persone che hanno avuto a che fare con me a Campobello, penso che dovete arrestare da due a tremila persone: di questo si tratta». 

Lannino e Naccari/ Studio Camera: la strage di Capaci, 23 maggio 1992

Ha voluto dire agli inquirenti di non aver dato l’ordine di uccidere il piccolo Giuseppe Di Matteo. Perché ci tiene a far sapere di aver rispettato il Codice d’Onore di Cosa Nostra sui bambini. E ha spiegato la sua ricchezza sostenendo che suo padre fosse un mercante d’arte e così avesse accumulato gran parte dei quattrini che ha ereditato. Alla fine ha deciso di morire con tutti i suoi misteri. Ha deciso di rimanere prigioniero delle sue radici. Mentre Cosa Nostra cambia e si trasforma in una Cosa Grigia, l’Ultimo della banda dei Corleonesi ha scelto di portarsi nella tomba i suoi segreti. La mafia del passato muore con la sua eredità. La storia di quella del futuro si dovrà ancora scrivere.

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