C’è un Paese in cui metà della popolazione non ha diritto di voto, e l’altra metà ne ha l’obbligo. Ed è nel cuore d’Europa

Domenica 8 ottobre Xavier Bettel si gioca la riconferma alla guida del Lussemburgo: ma a preoccupare, più che l’esito del voto, è l’anomalia democratica del Granducato

In Lussemburgo il ruolo di primo ministro è quasi un posto fisso. Chi ci arriva, ci rimane comodamente per lunghi anni. E si può star sicuri che la linea politica sulle grandi questioni economiche o internazionali non cambierà. Vista dall’Italia, la stabilità politica del Granducato appare quasi lunare. Xavier Bettel, il politico liberale e primo leader europeo a sposare una persona dello stesso sesso nel 2015, è alla guida del Paese da 10 anni tondi. Era arrivato in quella posizione, dopo la “gavetta” da sindaco della città di Lussemburgo, dopo che il suo predecessore, Jean-Claude Juncker, aveva infine deciso che 18 anni filati alla guida del Paese potevano bastare: impensabile, d’altronde, rinunciare alla prospettiva di guidare la Commissione europea. Domenica 8 ottobre il Lussemburgo va al voto, e Bettel si gioca la permanenza alla guida del Granducato. Secondo i sondaggi la sua riconferma è a rischio, considerato che il partito dato in miglior forma è quello cristiano-sociale, il Csv guidato da Luc Frieden. Le variabili in Parlamento una volta terminata la conta delle schede saranno molte comunque, considerato che sulla scena politica hanno fatto la loro comparsa anche alcuni piccoli partiti con tendenze populiste, come il Partito dei Pirati o quello di estrema destra Alternativa per la riforma democratica. Ma la verità è che il pathos in Europa attorno ai destini post-elettorali del Granducato è appena sopra lo zero: comunque vada, il più piccolo tra i fondatori dell’Ue resterà allineato ai grandi Paesi del blocco sulle scelte economiche e internazionali che contano. Eppure l’invidiabile stabilità del Lussemburgo nasconde una sorprendente anomalia democratica, ai limiti del vulnus sostanziale.


Due Paesi in uno (minuscolo)

La popolazione del Granducato – che coi suoi 660mila abitanti è il secondo Paese più piccolo dell’Ue, dopo Malta – risulta spaccata quasi esattamente in due nel momento in cui si aprono i seggi per il rinnovo del Parlamento: metà è obbligata a votare, l’altra metà non ne ha neppure il diritto. Già, perché il Lussemburgo è uno dei due Paesi Ue (insieme al Belgio, e a un’altra ventina di Stati in tutto il mondo) a prevedere non solo il diritto, ma il dovere di andare a votare per i cittadini regolarmente iscritti nelle liste elettorali. Nel Granducato l’astensione – a meno di provate ragioni – è passibile di un’ammenda dai 100 ai 1.000 euro. Il che vale però appunto solo per coloro i quali sono cittadini residenti con diritto di voto. Peccato che stando alle ultime stime demografiche di inizio anno, il 47,4% della popolazione del Lussemburgo sia costituita da stranieri residenti ma privi della cittadinanza. Il Paese, come noto, ha costruito il suo boom economico dagli anni ’60 attraendo sul suo territorio con una strategia di aggressiva “seduzione fiscale” banche e grandi aziende, ma anche prestigiose istituzioni internazionali, politiche e giuridiche. Ed è così diventato sempre più terra di expat per eccellenza. Che vivono e lavorano – con più o meno continuità – e contribuiscono così alla ricchezza del Granducato. Ma in molti casi restano lontani dalla vita pubblica del Paese ospitante ed esclusi dalla cittadinanza – per scelta o per difficoltà a raggiungere i requisiti. Per acquisire la nazionalità lussemburghese è necessario infatti aver risieduto 5 anni consecutivi nel Paese. Ma anche passare due esami che attestino la conoscenza di altrettante materie considerate indispensabile: l’educazione civica – non uno scoglio insuperabile, a priori – e la lingua lussemburghese – un mix particolare di impianto germanico e influssi francesi. Sonorità agrodolci di grande interesse, ma non esattamente alla portata di tutti.


Il diritto (di voto) può aspettare

E così il Paese, in cui a crescere numericamente è la popolazione straniera, non quella “autoctona”, arriva alle urne di questo ottobre 2023 con metà dei suoi residenti afasici. Un vulnus rilevante, considerato oltretutto, che quella esclusa dalle urne è la parte più dinamica e produttiva: poco meno del 90% dei lavoratori del settore privato del Paese. La metà appena abbondante di “veri” lussemburghesi, al contrario, lavora in molti casi nel settore pubblico, e ha tutto l’interesse a mantenere la stabilità del sistema che li protegge. li elettori, in gran parte impiegati nel settore pubblico, vogliono tutelare la loro posizione privilegiata. Per gli stranieri, i problemi maggiori sono i prezzi delle case, l’istruzione in lussemburghese e il traffico. Questione ben nota ai lussemburghesi, lavorano invece in molti casi nel settore pubblico e hanno dunque interessi e priorità spesso diversi da quelli degli “ospite”. Anche per questo, forse, i locali hanno manifestato chiaramente negli scorsi anni il loro rifiuto ad ammorbidire i criteri di integrazione degli expat: nel giugno del 2015, la popolazione ha respinto con un altisonante 78% di no la proposta referendaria per allargare il diritto di voto alle elezioni politiche agli stranieri residenti. «Il messaggio è chiaro ed è stato ben compreso: rispetteremo il risultato», non poté che concludere il primo ministro liberale Xavier Bettel, che pure quella riforma l’aveva proposta. Benvenuti per il lavoro, ma non per incidere sulle scelte politiche del Paese.

Foto di copertina: Il primo ministro del Lussemburgo Xavier Bettel all’arrivo al Consiglio europeo – Bruxelles, 30 giugno 2023 (EPA/OLIVIER MATTHYS)

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