Lo storico Garton Ash: «La Ue non crollerà sui migranti ma prevarrà la linea dura anche tra i moderati» – L’intervista

Il docente di Studi europei a Oxford, tra i più noti pensatori politici contemporanei, riflette con Open sulle sfide dell’Europa, che si prepara alle elezioni che decideranno il suo futuro

Può uno storico britannico scrivere una lettera d’amore – indirizzata non alla sua dolce metà ma a tutti noi, ossia l’Europa? È quello che Timothy Garton Ash, docente di Studi europei a Oxford e tra i più noti pensatori politici contemporanei, ha appena fatto con Patrie, il suo ultimo lavoro appena pubblicato in Italia per Garzanti. Le patrie, al plurale, in cui Garton Ash ci accompagna sono quelle multiple e sempre cangianti d’Europa, dove per incantesimo della Storia – come chiunque di noi ha sperimentato – ci si può sentire «in trasferta» ma anche a casa (Homelands, appunto, nell’originale inglese). A otto mesi da elezioni cruciali per il futuro dell’Unione europea, Garton Ash ci guida alla riscoperta delle sue radici, mescolando ricordi personali e storia pubblica, reportage e teoria politica, per ricordare come quel progetto sia nato e cresciuto in primis grazie alla potenza del «motore della memoria» di milioni di europei: quella consapevolezza che dopo tragedie epocali – la Seconda guerra mondiale, certo, ma anche, per il centro-est Europa, il lungo giogo sovietico – non ci potesse essere altra strada se non quella di un’altra Europa. In tour in Italia per presentare il suo libro, Garton Ash risponde alle domande di Open sulle tante forze che oggi quel progetto lo minacciano, ancora una volta, dalle fondamenta.


Professore, cosa pensa quando sente il numero 2 di uno dei partiti di governo italiani accusare la Germania di sostenere «una nuova invasione dell’Italia tramite i clandestini», o il governo polacco attaccare quello tedesco chiedendo il pagamento di riparazioni di guerra per oltre mille miliardi di euro?


«Nel libro racconto di come dopo il 1945 abbiamo iniziato a costruire la migliore Europa che abbiamo mai avuto, e poi abbiamo cominciato a perderla. Ed è proprio così: non è solo la guerra in Ucraina a minacciarla, o i regimi illiberali come quello di Viktor Orban in Ungheria. È anche il modo in cui i Paesi europei parlano l’uno dell’altro. A rischio della mia salute guardo a volte la tv di Stato polacca, e onestamente un propagandista ne sarebbe orgoglioso: è un attacco continuo alla Germania e all’opposizione. Quel che è incredibile è che non si sarebbe potuto fare una cosa del genere solo 30 anni fa, perché c’erano ancora troppe persone che ricordavano ciò che l’occupazione nazista effettivamente era: sarebbe parso semplicemente ridicolo. Quindi sì, il fatto che ora abbiamo per la prima volta una generazione di europei che non hanno un’esperienza personale della guerra o dei gulag, di una dittatura fascista o comunista, finisce paradossalmente per rappresentare un problema, perché il motore della memoria, l’esperienza personale di quella «Europa peggiore» è stata una delle forze motrici di ciò che si è tentato di fare dopo. Ecco perché a noi – storici, giornalisti, cineasti – spetta il compito di fare in modo che le persone imparino da quella storia pur senza averla vissuta direttamente».

Resta il fatto che la pressione migratoria costituisce una sfida ricorrente all’unità europea, fornendo ancora una volta la ragione per violenti scontri tra Paesi fondatori, che poi pure vengono rammendati come con l’accordo annunciato oggi. Sarà questa, oggi o nei prossimi decenni, la minaccia più grave all’unità europea?

«Non c’è dubbio che l’immigrazione dia benzina al populismo in tutta Europa – dalla Germania al Regno Unito, dalla Spagna all’Italia. E non c’è dubbio che sia una delle più grandi sfide che abbiamo di fronte. Ma non credo che farà crollare l’Unione europea, come Josep Borrell ha paventato pochi giorni fa: perché ciò che stiamo vedendo sono partiti mainstream – di centrodestra e talvolta anche di centrosinistra – spostarsi decisamente verso destra, assumere una linea molto più dura sull’immigrazione per evitare che i voti vadano all’estrema destra populista. Ecco perché non credo la minaccia sia il collasso dell’Ue, quanto se mai che l’intera Europa si sposti decisamente verso destra, sdoganando pratiche illiberali e disumane per tentare di tenere i migranti fuori dalla porta. Come affermo nel libro, abbiamo tirato giù una Cortina di ferro nel cuore d’Europa, ora ne stiamo costruendo una ai confini d’Europa, o nel Mediterraneo dove lasciamo morire le persone».

Uno dei racconti più mirabili del suo libro è quello degli scioperi operai del 1980 ai cantieri Lenin di Danzica che avrebbero dato il la, entro quel decennio, al collasso del regime comunista in Polonia e poi in tutta l’Urss, senza che n quella rivoluzione si versasse una sola goccia di sangue. Domenica quasi un milione di persone ha marciato per le strade di Varsavia per dire no alla riconferma al potere dei nazional-populisti di Pis. Il segno che qualcosa sta cambiando in Polonia, o “solo” che c’è nel Paese una rumorosa e ben organizzata minoranza?

«Questa è l’elezione più importante in Polonia da quella del 4 giugno 1989, che segnò di fatto la fine del comunismo in Polonia. Sarò a Varsavia tra 10 giorni per testimoniare direttamente quest’elezione: sarà un testa a testa, gli ultimi sondaggi mostrano che la distanza tra i due schieramenti potrebbe essere di 1 o 2 punti percentuali. Ma la differenza con ciò che accade in Italia o nel Regno Unito, dove quando si va al voto ci può essere qualche problema ma il processo è essenzialmente corretto, è che queste non sono elezioni regolari: la tv pubblica è uno strumento di propaganda per il partito di governo, che controlla i media. Per questo l’opposizione deve andare in strada, inventarsi cose non convenzionali per compensare l’ingiustizia del processo elettorale. Ecco perché la marcia di 1 milione di persone è stata un segnale straordinario – la foto aerea della manifestazione toglie il fiato – ed ecco perché sarebbe un risultato doppiamente straordinario se l’opposizione dovesse vincere: sarebbe non solo un salutare cambiamento per la Polonia, ma anche il segno che si può vincere un’elezione irregolare».

Nell’incredibile campagna elettorale polacca abbiamo sentito anche il primo ministro Mateusz Morawiecki annunciare dalla sera alla mattina lo stop all’invio di armi in Ucraina. Stessa intenzione manifestata da Robert Fico, che si appresta a formare un nuovo governo in Slovacchia, ma soprattuto dall’ala trumpiana dei Repubblicani, che lo scorso weekend ha bloccato i fondi Usa per Kiev. Si stancherà prima Putin o prima l’Occidente di sostenere la guerra in Ucraina?

«Questa è la domanda cruciale, perché Vladimir Putin pensa che il tempo lavori dalla sua parte, e terrà duro fino alle elezioni presidenziali Usa del prossimo autunno, nella speranza che Donald Trump vinca una seconda volta e stacchi la spina al sostegno all’Ucraina. Questa è la più grande minaccia per l’Ucraina. La Slovacchia invia certamente un segnale preoccupante, ma è un piccolo Paese, e Fico dopo tutto un ex primo ministro che conosce il pragmatismo e la tattica. E anche in Polonia si tratta di tattica in vista delle elezioni: non credo che il sostegno di lungo periodo della Polonia all’Ucraina sia in pericolo. Mettiamola così: Vladimir Klitschko, il campione di pesi massimi e fratello del sindaco di Kiev, ha detto l’altro giorno: «Sarà come un match di box di pesi massimi: se non infliggi il colpo del ko, devi essere pronto a combattere il 12esimo round». Ed è ora abbastanza chiaro che l’Ucraina non è riuscita a infliggere alla Russa il colpo del ko: la controffensiva non è riuscita a ricacciare le sue truppe fuori dai territori occupati. Quindi gli ucraini devono essere pronti a combattere l’ultimo round, e noi con loro. È questo quello che dobbiamo iniziare a dire all’opinione pubblica».

Nel suo libro lei osserva che il mito di Amleto, che ricorre in molte lingue e culture d’Europa, sembra a volte la perfetta metafora dell’Ue: perennemente indecisa sulle grandi sfide che ha davanti a sé. Pensa che i leader europei dovrebbero gettare il cuore oltre l’ostacolo e aprire i negoziati per l’ingresso dell’Ucraina nell’Ue già entro la fine di quest’anno, come ha sostenuto tra gli altri la presidente del Parlamento europeo Roberta Metsola?

«Se Amleto fosse sopravvissuto in tempo per vedere Fortebraccio fare il suo ingresso sulla scena, forse sarebbe diventato un po’ meno indeciso: e in un certo senso l’Ue somiglia più a questo tipo di Amleto. Fuor di metafora, lo spettacolo dell’invasione su larga scala dell’Ucraina da parte di Vladimir Putin, che la maggior parte degli europei credeva semplicemente impensabile, ha davvero creato un cambiamento mentale radicale nell’Ue, guarendola dalla sindrome di Amleto. La risposta data dal 24 febbraio 2022 all’aggressione russa è stata forte, unita ed estremamente determinata, come dimostra da ultimo la riunione di tutti i ministri degli Esteri Ue a Kiev questo lunedì. Se si va a Bruxelles in questi giorni si percepisce un’atmosfera completamente diversa da quella di prima della guerra: chi lavora nelle istituzioni Ue ha davvero il sentimento che «questo è quello per cui siamo qui: fermare una guerra su larga scala in Europa, tornare ad essere il progetto di pace di riferimento, avvicinare a noi quei popoli che vogliono essere europei». Ha perfettamente senso».

Lei ricorda spesso di essere un «europeo britannico» che però è stato privato di una delle due cittadinanze, quella europea, da una scelta dei suoi connazionali: quella di Brexit nel 2016. In Europa non ne parliamo più, forse perché l’Ue tutto sommato ha retto il colpo senza eccessivi scossoni, come si temeva in quei giorni. Ma come ha impattato quella scelta sul Regno Unito, sette anni dopo? E se si tenesse un nuovo referendum domani, come andrebbe a finire?

«È proprio così: nessuno ne parla più, da nessuna parte in Europa. Il Regno Unito è uscito male, molto male dalla Brexit, così come avevamo previsto sarebbe successo: le conseguenze economiche sono estremamente negative. E il fatto stesso che non si parli più del Regno Unito in Europa mostra nella maniera più chiara la caduta della sua reputazione e del suo soft power. Ciò non significa però che una maggioranza di britannici ora voterebbe per rientrare nell’Ue: se domani si tenesse un nuovo referendum probabilmente finirebbe nello stesso modo. Ma vedo aprirsi un processo in cui, passo dopo passo, il Regno Unito torna lentamente ad avvicinarsi di nuovo all’Ue. Per questo dico: parliamone di nuovo nel 2029. E se quel processo avrà avanzato bene, se saremo più vicini e se l’Ue stessa sarà in forma migliore, non a queste elezioni europee ma alle successive potremmo trovarci di fronte alla realtà che le persone nel Regno Unito tornino a chiedersi se non valga la pena rientrare nell’Ue».

In questi giorni sta girando l’Italia per presentare il suo libro. Se dovesse incontrare un ragazzo o una ragazza che sta per compiere 18 anni e non ha idea del perché dovrebbe andare a votare alle Europee del prossimo giugno, cosa gli o le direbbe?

«Credo sia molto importante cominciare col metterci in ascolto. Quindi comincerei chiedendo loro dove sono stati in Europa negli ultimi tre anni, e che esperienze hanno fatto. Ti è piaciuto quel viaggio a Londra o quell’altro a Parigi? Chi hai incontrato? Ora conosci delle persone in quelle città? Inizierei dalle loro esperienze di vita, e poi direi loro: «Tu pensi che tutto ciò sia normale, che puoi darlo per scontato, ma non lo è affatto». Tutto può crollare di nuovo, perché l’abbiamo già visto succedere: nell’ex Jugoslavia, in parti dell’Europa orientale o in Ucraina. Gli o le direi quindi: «Se dai valore a quelle esperienze che hai vissuto, al fatto di poterti svegliare una mattina e decidere di prendere un treno o un aereo per un altra città d’Europa, senza dover mostrare il passaporto o cambiare moneta, al fatto di poterci restare se incontri qualcuno che ti piace, stabilirti lì e trovarci lavoro, beh questo è un traguardo incredibile. E abbiamo bisogno di te per difenderlo».

Leggi anche: