Israele-Hamas e lo spettro dell’odio per gli ebrei, Fiano: «Ho detto a Liliana Segre che la sua lezione non andrà perduta. Il dolore diventi azione» – L’intervista

L’esponente Pd e leader di Sinistra per Israele riflette in un nuovo libro sulle lezioni della Shoah. E a Open ribadisce: «La politica è guardare oltre, anche nei momenti più drammatici»

La speranza è davvero l’ultima a morire. Deve essere così per chi fa politica, per chiunque abbia come obiettivo la costruzione di realtà diverse. Vale anche per oggi, per il Medio Oriente di nuovo in fiamme così come per l’Europa lacerata da rigurgiti di odio e spettri del passato. Ne è convinto Emanuele Fiano, esponente del Pd, di cui è stato a lungo parlamentare e membro della direzione, figlio di uno dei più instancabili testimoni della Shoah, il deportato ad Auschwitz Nedo, oltre che segretario nazionale di Sinistra per Israele. Alla vigilia di un 27 gennaio che s’annuncia per molte ragioni diverso da tutti i precedenti, Fiano ha raccolto nelle pagine di Sempre con me. Le lezioni della Shoah (Piemme) tutte le sue domande, e le possibili risposte, su quel che deve restare, nel pensiero e nell’azione di tutti i giorni, dei decenni di testimonianza resa dai sopravvissuti ad Auschwitz. Scritto prima della mattanza di Hamas del 7 ottobre e della nuova guerra che quell’atto ha scatenato, il libro offre alla luce di quei fatti nuovi inquietanti spunti di riflessione sui mille volti dell’antisemitismo, ma anche idee su come trarre forza dalle peggiori tragedie della Storia. Due facce della medaglia su cui Fiano si è confrontato pubblicamente giorni fa al Memoriale della Shoah col dolore e l’angoscia della senatrice a vita Liliana Segre.


Dopo la caccia all’ebreo cui ha dato via Hamas il 7 ottobre e il risvegliarsi dell’antisemitismo in Europa tanto Edith Bruck quanto Liliana Segre hanno confessato tutto il loro scoramento e il timore che la loro lezione vada perduta. Lei che fa parte della generazione dei figli della Shoah condivide quell’angoscia “assoluta”? O trova parole per incoraggiarli?


«Liliana Segre per me è una di famiglia, è come una zia. Con infinito tatto e amore le ho detto l’altra sera al Memoriale che non ero d’accordo, perché noi ci siamo forgiati nella loro forza: non solo noi figli di deportati, ma noi tutti che abbiamo saputo persistere nella lezione della memoria. Perché proprio da loro abbiamo imparato che quello che ci è arrivato dopo – la libertà, la democrazia – non rimane mai per sempre: e che dunque ogni colpo è uno sprone a battagliare di più. E così io faccio anche in queste settimane, andando a parlare e discutere quasi tutte le sere di ciò che sta accadendo, sapendo che è sempre una battaglia. È questo il testimone che mi è stato lasciato nelle mani: trasformare il dolore e lo smarrimento in azione». 

Cosa dirà se le capiterà di incontrare in una di queste occasioni rappresentanti di quegli studenti che in queste settimane sfilano in piazza al grido di «Palestina libera, dal fiume al mare» o che nelle aule delle Università occupate danno voce a personaggi come Leila Khaled, la militante del Fronte popolare per la liberazione della Palestina che predica l’insurrezione contro il «genocidio» perpetrato da Israele?

«Penso sia inaccettabile che qualcuno urli oggi alla distruzione dello Stato d’Israele. Dopodiché in qualsiasi discussione io faccia cerco sempre di partire prima di tutto dalla Storia, perché c’è molta ignoranza: e questo permette di sfatare molti miti duri a morire, a partire da quello essenziale di una visione manichea di Israele forte sempre in torto contro palestinesi deboli che hanno sempre ragione. Cerco di mostrare le contraddizioni della banalità del male che portano avanti. Di ricordare per esempio come Hamas abbia al cuore della sua Carta costituiva non la rivendicazione dell’autonomia nazionale palestinese, ma la cancellazione degli ebrei da quella terra. O di come abbia governato per 17 anni un territorio ricevendo un mare di finanziamenti da Iran e Qatar senza costruire alcunché per la popolazione. Dopodiché la politica è libera, e si possono criticare le scelte del governo di Israele, così come io sono libero di criticare la leadership palestinese. Bisogna avere studiato e conoscere, però: poi si può discutere di tutto». 

E la sinistra politica rappresentata dal Pd? Condivide la linea sul conflitto che ha espresso in queste settimane la segretaria Elly Schlein?

«Mi pare che abbia tenuto una posizione chiarissima nei primi giorni dopo quel che è successo il 7 ottobre, ricevendo non a caso gli espliciti ringraziamenti dell’Ambasciatore d’Israele. Poi ovviamente con l’evolversi della situazione sul terreno quella posizione si è legittimamente condita di grande preoccupazione per quel che accade a Gaza e della richiesta di una tregua o di pause umanitarie nei combattimenti. Su singoli fatti potrei dialogare con lei e mettere in luce alcune distinzioni, ma nel complesso dal vertice giù fino ai circoli sul territorio il Pd ha tenuto una posizione abbastanza corretta». 

Fermo restando il diritto all’autodifesa per l’assalto del 7 ottobre, crede di fronte al drammatico bilancio di vittime a Gaza che Israele potesse fare diversamente per debellare Hamas? 

«È una domanda difficile, che implica conoscenze militari che non ho. Noto però che l’azione di terra, al contrario di quel che dicevano gli Usa, produce molti meno morti civili rispetto a quella dei bombardamenti aerei o di artiglieria. Il diritto alla difesa di Israele è inalienabile, lo scopo della sua operazione condivisibile, ma il costo in vittime civili è molto molto pesante. Non so dire se si poteva fare diversamente. Quello di cui sono sicuro invece è che Israele non colpisce deliberatamente civili, men che meno che chiunque ai vertici del Paese abbia mai avuto progetti «genocidi». Lo ha detto un colonnello stesso dell’Idf nei giorni scorsi all’inviato di Repubblica Fabio Tonacci: “Mi creda, tutti quei morti pesano anche su di noi”». 

Chi i morti civili li ha cercati eccome, sbizzarrendosi in abusi e torture, è stata Hamas. In una delle pagine più drammatiche del libro, lei rievoca la crudeltà degli Einsatzgruppen tedeschi, che nel condurre gli stermini di massa in Polonia, fra l’altro, «facevano tiro al volo con il corpo di un neonato ebrei lanciato in aria». Vede paralleli possibili tra quel che fecero i tedeschi in Europa ieri e quel che ha fatto Hamas in Israele oggi, o va preservata come ha richiamato qui Gadi Luzzatto Voghera l’unicità della Shoah?

«Mi guida quella frase di Tzvetan Todorov che ho posto all’inizio del libro: “La nostra difesa dell’unicità della Shoah non ci impedisce di trarne lezione universale”. Ossia che ad ogni tempo e ad ogni latitudine, con determinate condizioni, gli umani possono trasformarsi in in-umani. Da cosa possono esserlo? Nel caso di Hamas prima di tutto dall’ideologia islamista: da quell’antisemitismo ablativo, assoluto, di natura religiosa iscritto nella Carta costituente che vuole che gli ebrei vadano “cercati dietro ogni albero e eliminati”. La loro militanza non è legata alla resistenza del popolo palestinese, ma al jihad, alla guerra santa in nome di quelli che loro ritengono essere i principi sacri dell’Islam. È un’ubriacatura ideologica come era per il nazismo, di chi pensa con la propria azione di star costruendo il nuovo mondo, da purificarsi dagli immondi». 

Nell’orrore e angoscia di questi giorni intravede la possibilità di un dopo di costruzione politica in quella regione? Il papà di Elly Schlein, studioso di relazioni internazionali, è stato l’ultimo a iscriversi al partito di chi non crede più alla soluzione due popoli due Stati. E lei?

«Se si guarda alla storia di questo conflitto si vedrà che il dopo è sempre arrivato con momenti di svolta sorprendenti seguiti a fasi drammatiche. Sei anni dopo la guerra del Kippur Begin e Sadat firmavano la pace tra Israele ed Egitto. Dopo la guerra dell’82 con il Libano e l’emigrazione delle milizie palestinesi a Tunisi iniziò il percorso che avrebbe portato agli Accordi di Oslo. Dopo queste grandi tragedie se hai una classe dirigente lungimirante capisci che devi trovare una nuova prospettiva. Certo, anche Arafat quando Rabin gli strinse la mano aveva le mani sporche di sangue. La pace si fa col nemico, insegna Amos Oz. È evidente che in questi giorni tutto ciò appare difficile. Ma non impossibile. Nella Storia non si tocca mai davvero l’impossibilità. Quanto alla soluzione due popoli due Stati, tutti dicono che non ci sia più quella possibilità perché ci sono ormai troppi insediamenti israeliani in Cisgiordania. Ma basta leggere quel che un ex primo ministro cresciuto nel Likud come Ehud Olmert ha detto al Corriere della Sera: se ne possono restituire soltanto una parte, si può immaginare di compensare quel che manca con terre nel Negev o ancora in altri modi. Le soluzioni si possono trovare. In Europa Francia e Germania si sono fatti guerre a ripetizione con milioni di morti, e poi hanno trovato la forza di fare la pace e di costruire quel che oggi è l’Unione europea. La politica senza punto d’arrivo per il futuro non esiste. Conosciamo la Storia e i suoi dolori, ma anche la forza che ha la politica di costruire nuove prospettive».  

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