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Antisemitismo nelle università Usa? Jill Abramson: «Ragazzi senza memoria, con doppia morale sulla libertà di espressione» – L’intervista

13 Dicembre 2023 - 06:29 Serena Danna
«Gli studenti tendono a simpatizzare per chiunque è visto come vittima», dice l'ex direttrice del «New York Times» e docente di Harvard, che commenta le polemiche sui campus americani: «Amplificate da media e un regalo per Trump»

«Quando ero direttrice del New York Times, ogni volta che riemergeva la questione palestinese ai lettori interessava solo una cosa: se eravamo pro-Palestina o pro-Israele», dice Jill Abramson mentre sorseggia il suo caffè del risveglio al telefono con Open. Sono passati quasi 10 anni da quando ha lasciato la Gray Lady, ma il ricordo della gestione del conflitto mediorientale ancora tormenta la giornalista che al Times ha trascorso 17 anni, di cui 4 da direttrice di testata. Anche per questo, Abramson non è sorpresa per ciò che accade in alcune prestigiose università americane, accusate di coprire tracce di antisemitismo dietro alle rumorose proteste a favore dei cittadini di Gaza. Laureata ad Harvard, l’autrice di Mercanti di verità (Sellerio) ci è tornata per la seconda vita da insegnante. Lì ha trascorso 9 anni, osservando da vicino i cambiamenti della vita e della cultura all’interno dei campus: «Gli studenti tendono a simpatizzare per chiunque è visto come vittima – ci spiega -. Vittima di ingiustizia, di violenza, di diseguaglianza. E questo non inizia certo oggi».


Quindi non c’entra niente la presunta radicalizzazione dei campus americani?

«Gli studenti della Ivy League sono diventati molto attivi politicamente tanto tempo fa: negli anni Sessanta con il movimento per i diritti civili, perché vedevano – in maniera corretta – che i neri del Sud degli Stati Uniti erano vittime di diseguaglianza nell’applicazione della legge e nell’accesso alla giustizia.
L’episodio del 7 ottobre 2023 ha ribaltato la loro prospettiva vittima-carnefice, capovolgendo una narrazione che vede da sempre in Medio Oriente i palestinesi come vittime e gli Israeliani come occupanti. Da qui potrebbe nascere la difficoltà di alcuni a riconoscere Israele come vittima».

E le difficoltà delle istituzioni accademiche nel gestire questa distorsione ottica dove nascono?

«Credo che, nel caso di Harvard, il vero errore sia stato iniziale, quando poco dopo il tremendo attacco di Hamas è stata diffusa una lettera – in teoria firmata da 30 gruppi diversi di studenti, in realtà orchestrata solo da un gruppo – in cui si diceva che Israele fosse il vero responsabile per quanto accaduto il 7 ottobre. Quella lettera è stata estremamente fuorviante: colpevolizzava le vittime sostenendo che gli ebrei fossero responsabili per il loro eccidio. Ha dato il via a un clima di odio che la rettrice Claudine Gay non è stata immediatamente in grado di fermare. Harvard ha rilasciato un primo comunicato sulla vicenda molto annacquato, in cui non veniva condannato l’antisemitismo, né tantomeno si prendevano le distanze dalla lettera. Per quanto la rettrice abbia cercato di uscire da quella spirale, non ci è riuscita».


E così si arriva presto al giorno dell’audizione al Congresso quando Gay, insieme alle due colleghe del MIT e della Penn University, hanno risposto in modo evasivo e molto confuso sui presunti episodi di antisemitismo nei campus.

«Devo dire che ho provato un forte sentimento di empatia per loro. Erano in una situazione di grande ostilità, in cui avrebbero sbagliato comunque. Se alla domanda della deputata repubblicana di New York Elise Stefanik (che ha chiesto se invocare il genocidio degli ebrei violasse o meno le regole di condotta degli atenei ndr) invece di balbettare il “dipende”, avessero detto di sì, avrebbero avuto problemi con la tutela della libertà di opinione. Il contrario le avrebbe condotte a una giustificazione dell’antisemitismo».

Alcuni hanno avuto proprio questa impressione. Lei?

«Se Gay non fosse stata così stanca dopo 5 ore di audizione, probabilmente avrebbe realizzato che la trappola era nella domanda della senatrice, che ha spostato la questione sul genocidio degli ebrei, quando l’unico genocidio citato all’interno delle proteste era quello contro i palestinesi».

Stanca o non sufficientemente preparata per un confronto così duro?

«Claudine Gay poteva non dire nulla ma ha accettato di testimoniare al Congresso. Prima di iniziare ha letto una dichiarazione inattaccabile in cui è scritto nero su bianco che il linguaggio antisemita viola le regole di Harvard. Sarebbe bastato fare nuovamente riferimento a quella dichiarazione ma non ci è riuscita. L’obiettivo della senatrice era solo uno: umiliarla. E sa perché?».

Perché?

«Cercava vendetta. Elise Stefanik è laureata ad Harvard. Fino alle ultime elezioni presidenziali sedeva nel prestigioso comitato dell’Harvard Institute of Politics. Ma è una denier, una trumpiana che non riconosce il risultato delle elezioni. Quindi il board dell’ateneo ha deciso di buttarla fuori come accade a tutti coloro che non rispettano i principi democratici. Voleva chiaramente vendicarsi con Harvard e direi che ci è riuscita alla grande».

Claudine Gay è rimasta al suo posto dopo qualche giorno di tensioni. La rettrice di Penn è saltata mentre la sua collega di MIT è stata subito difesa dal cda. Non si capisce quale sia il criterio, e viene il dubbio che c’entri il peso economico e l’orientamento politico dei donatori.

«Un’istituzione come Harvard non dovrebbe essere influenzata dai donatori che corrono a sbraiatare online. Certo, hanno tanti soldi ma non hanno alcuno standing morale nella nostra società. Dunque la loro voce non dovrebbe contare. Le università dovrebbero domandarsi invece quali siano i loro valori, la loro missione nel mondo e se i rettori e le rettrici che hanno scelto – e che rappresentano il simbolo più visibile di quella missione – siano le persone giuste per farlo. Nel caso di Claudine Gay era considerata la migliore neanche un anno fa, quando è stata scelta tra centinaia di candidati: avrebbe dovuto perdere il suo lavoro per 5 minuti di un’audizione? È stata vacillante, è vero. Ma non vuol dire che lo sia la sua leadership. Io credo che bisogna darle una chance per stabilizzarsi e per dimostrare al mondo che può ancora essere un’ottima leader della più importante università americana. Di certo non bisogna darla vinta ai donatori facoltosi che vogliono urlare su Twitter la sua inadeguatezza. Insieme a loro c’è anche l’ex segretario del Tesoro Larry Summers, ex presidente di Harvard, che l’ha denunciata pubblicamente. Parliamo di un uomo che è stato mandato via per aver detto che l’universo femminile è biologicamente svantaggiato in campo scientifico. Questo è stato il suo contributo alla high education americana da presidente di Harvard».

Nei campus americani c’è un problema oppure no?

«Non nella misura in cui viene descritto su media e social media. Le università della Ivy League sono state sempre sotto attacco di un certo potere politico. Oggi sono l’obiettivo dei trumpiani come durante l’era Nixon lo erano del suo vice Spiro Agnew, che diceva che erano piene di comunisti».

Però le proteste senza condanne esplicite di Hamas hanno fatto il giro del mondo, così come i cartelli pro Intifada.

«Credo – ripeto – che su questo ci sia una grandissima responsabilità dei media che ormai, appiattiti sui social, tendono a dare risalto solo agli estremi e alle questioni polarizzanti. Queste proteste e conflitti non riguardano “le università americane” ma gruppi di studenti di alcune università. Dopo l’audizione, sono andata ad Harvard convinta di vedere manifestazioni e proteste in ogni angolo e sa quante ne ho trovate? Zero».

E cosa dice a chi accusa le università di un doppio standard? Attenzione scrupolosa quando si tratta di tutela del genere e della razza e difesa della libertà di espressione quando si tratta di criticare ebrei?

«In parte hanno ragione. Ci sono dichiarazioni considerate inaccettabili e indicibili e altre – che pure lo sarebbero per le persone coinvolte – che invece vengono concesse. Gli standard della libertà di espressione vengono difesi in maniera diversa a seconda dei gruppi criticati. Ma non dobbiamo dimenticare che questi ragazzi hanno 20 anni: non hanno memoria politica, non sanno come Israele è diventato Israele, non hanno alcuna connessione con l’Olocausto o con il Dopoguerra, né hanno veramente idea di cosa abbiano patito gli ebrei che non avevano una terra dove scappare».

Trump festeggia?

«Tutti i supporter di Trump sono contenti di vedere l’accademia sulla graticola. Di sicuro questa situazione lo aiuta, come è certo che penalizzi Joe Biden, che con le sue posizioni pro-Israele rischia di allontanare gli studenti. Il presidente ha bisogno dei giovani per battere Trump a novembre, ma i giovani non vedono in lui un rappresentante valido. Non credo che potrebbero votare per Trump ma è probabile che resteranno a casa perché non hanno alcuna spinta per recarsi alle urne. Non solo per questioni di età ma di rappresentanza. Sono alla ricerca di un leader ma non lo trovano e il risultato è un grande pessimismo, di cui potrebbe beneficiare Trump».

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