Dal Canale di Suez a quello di Panama: come e perché il blocco degli Stretti può far deragliare l’economia mondiale

La crisi nel Mar Rosso preoccupa Europa e Usa: anche perché s’aggiunge ai problemi che gravano da mesi sulla rotta Asia-America

Prosperity Guardian. Guardiani della Prosperità. Non è un caso se la missione navale internazionale che gli Usa stanno mettendo insieme in queste ore per controbattere agli attacchi sul Mar Rosso delle milizie Houthi ha questo nome. Perché in gioco, oltre alla sicurezza immediata di cargo ed equipaggi ovviamente, c’è un pezzo rilevante dell’economia mondiale. E occidentale. Per capire la portata della sfida bisogna ricordare qualche numero, e qualche fragilità congenita, del sistema commerciale globale. Prima cifra grezza: l’80% delle merci al mondo viene spedita via nave, certifica l’Onu. Statistica che non deve stupire, come spiega a Open Alberto De Benedictis, esperto del settore e consigliere d’amministrazione di Clearwater Dynamics: «Le spedizioni via nave hanno costi irrisori rispetto a qualsiasi altra alternativa. Basti tener presente che il costo di un intero container dalla Cina all’Europa si aggira oggi attorno ai 3-4mila dollari. E che le nuove maxi-navi di operatori come Maersk portano fino a 18mila container». Competitività imbattibile per chi invia e per chi compra, insomma. D’altro canto però le rotte commerciali che connettono aree chiave per gli scambi – Europa, Asia, Medio Oriente, America – scontano una debolezza strutturale: la dipendenza dal passaggio in alcuni Stretti. Per definizione fragili: perché implicano una navigazione a ritmo ridotto, ma anche perché si trovano in aree esposte a shock imprevedibili. Politico-militari, ma non solo.


Da Suez a Panama, stretti off limits

Ci sono lo Stretto di Bab el Mandeb e il Canale di Suez, certo, le due «porte» del Mar Rosso, via più breve tra Europa e Asia, da cui si stima passi circa il 12% del traffico navale mondiale e circa un decimo delle petroliere. Ma soprattutto, come ricorda il Financial Times, la totalità delle spedizioni di petrolio e gas liquefatto che dal Medio Oriente arriva in Europa. Un blocco di quella tratta per via degli attacchi o delle minacce degli Houthi sarebbe quindi esiziale. Anche perché la strozzatura andrebbe ad aggiungersi ad un’altra, di tutt’altra radice, che sta causando ingorghi e ritardi altrettanto preoccupanti all’altro capo del pianeta, nel Canale di Panama. Dalla scorsa estate la navigazione nello stretto che taglia il Centro America è complicata dalle conseguenze della siccità che ha colpito la regione per effetto del Niño. L’abbassamento dei livelli dell’acqua nei laghi del sistema del Canale ha costretto l’Autorità che lo gestisce a contingentare il numero di navi che possono circolare ogni giorno. Risultato: chi deve spedire lungo la lucrosa tratta Asia-East Coast Usa è costretto a valutare altre rotte, più lunghe e costose. Le opzioni vanno dalla circumnavigazione del Sudamerica (passando per un altro Stretto, quello di Magellano) a quella dell’Africa (doppiando il Capo di Buona Speranza), sino (teoricamente) al passaggio mediorientale da Suez. Insomma due tra le principali rotte commerciali globali sono ridotte all’osso (anche se proprio nei giorni scorsi l’Autorità del Canale di Panama ha fatto sapere che il numero di slot disponibili aumenterà un po’ più del previsto da gennaio), le vie di fuga sono poco attraenti e in parte coincidono.


Il terzo fronte «in sonno»

Una situazione di grande fragilità per i rifornimenti di beni e servizi cruciali per Europa e Usa, che potrebbe persino peggiorare se «qualcuno» pensasse di creare problemi anche su un’altra strettoia sensibile, ricorda ancora De Benedictis: quella di Hormuz, che apre la strada dal Golfo Persico alle petroliere in rotta verso il resto del mondo. Ad affacciarsi su quello Stretto, già teatro di intense azioni di pirateria, è l’Iran, che già in passato ha mostrato di esser disposta a usare più o meno sottilmente anche quell’arma per colpire cargo diretti in Occidente. Dichiarazioni roboanti a parte, Teheran sin qui – dall’inizio della nuova crisi mediorientale il 7 ottobre – non ha tirato fuori gli artigli, anche in considerazione del dispiegamento delle portaerei Usa nella zona. Ma se volesse mettere ulteriormente in crisi l’Occidente, potrebbe ricorrere ad azioni nel «cortile di casa». Sfruttando la fragilità del sistema commerciale globale, già reso evidente prima dalla pandemia (2020), poi dalla «mini-crisi» dell’incagliamento della Ever Given nel Canale di Suez (2021). La ripresa dei traffici marittimi dopo quei due segnali d’allarme, in assenza di interventi risolutivi, nascondeva solo il rischio della «prossima tempesta», avvertiva lo scorso anno l’agenzia Onu per il commercio e lo sviluppo Unctad. Come volevasi dimostrare.

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