Dalla corsa al nucleare ai ritardi nell’estrazione: perché il prezzo dell’uranio ha raggiunto i massimi da 17 anni

La domanda per il metallo impiegato nei reattori nucleari continua a crescere. Ma l’offerta, ad oggi nelle mani di pochissime aziende, fatica a tenere il ritmo

Ora che il prezzo del metano è sceso fino quasi a toccare i livelli del pre Covid, ecco che a salire sono le quotazioni di un’altra materia prima: l’uranio. Si tratta di un metallo fondamentale per molti Paesi, che trova impiego soprattutto come combustibile nei reattori nucleari. Nel 2020, il prezzo dell’uranio sui mercati era di 25 dollari per libbra. A inizio 2024 è lievitato a 106 dollari per libbra, il dato più alto mai toccato dal 2007, in crescita del 424% rispetto al pre Covid. I motivi hanno a che fare soprattutto con la particolare situazione in cui versa il mercato. Da un lato, la domanda di uranio è in continua crescita, grazie anche al ritorno in auge del nucleare civile come fonte di produzione di energia pulita. Dall’altro, c’è un’offerta concentrata nelle mani di pochissime imprese, che non riescono a garantire la quantità di uranio richiesta nel mondo e contribuiscono ad alimentare l’incertezza sulle forniture.


Dove si estrae l’uranio

Il maggior estrattore al mondo di uranio è di gran lunga il Kazakistan, che con 21mila tonnellate annue detiene una quota di mercato del 45%. Seguono la Namibia (con il 12%), il Canada (10%) e l’Australia (8%). Niger e Russia possiedono entrambe una quota di mercato pari al 5%. Ma l’azienda russa Rosatom, controllata dal Cremlino, può contare sul 40% delle infrastrutture per la conversione dell’uranio e su quasi la metà della capacità totale di arricchimento del metallo. Pur non potendo contare su grandi capacità di estrazione, il Paese di Vladimir Putin mantiene una posizione assolutamente centrale nella catene di approvvigionamento di uranio. Ed è proprio in quest’ottica che va letta la strategia di Rosatom, prima al mondo per la costruzione di nuove centrali nucleari al di fuori del proprio Paese di origine. Stando a un rapporto del 2022, la controllata del Cremlino è impegnata nella costruzione di 23 reattori in 8 diversi Paesi: Bangladesh, Bielorussia, Cina, Egitto, Ungheria, India, Turchia e Iran.


TRADING ECONOMICS | L’andamento del prezzo dell’uranio (dollari/libbre) dal 2020 ad oggi

La dipendenza dell’Occidente dalla Russia

La dipendenza da Mosca per le forniture di uranio non risparmia nemmeno Stati Uniti e Unione Europea, che importano rispettivamente il 12% e il 17% del proprio fabbisogno proprio dalla Russia. Negli undici pacchetti di sanzioni approvati da Bruxelles, i vertici europei si sono ben guardati dall’includere l’uranio – così come le terre rare – nella lista dei prodotti banditi. Lo stesso hanno fatto anche a Washington, dove di recente si è deciso però di cambiare strategia. Lo scorso dicembre, la Camera dei Rappresentanti ha approvato un disegno di legge per vietare le importazioni di uranio dalla Russia fino al 2040. L’impostazione attuale del provvedimento, che ancora deve ricevere il via libera del Senato, lascia alle aziende la possibilità di aggirare il divieto fino al 2028 in caso di necessità, ma non è escluso che Mosca decida di giocare d’anticipo per vietare fin da subito ogni esportazione di uranio verso gli Stati Uniti.

Perché si alzano i prezzi

A far schizzare i prezzi dell’uranio sui mercati ha contribuito soprattutto l’allerta lanciata da Kazatomprom, che da sola rappresenta oltre un quinto della produzione mondiale. Nel 2024 e 2025, ha avvertito il colosso kazako dell’energia, l’azienda non riuscirà a garantire la quantità di uranio offerta nel 2023, nonostante la domanda a livello mondiale sia in continua crescita. In un comunicato pubblicato a dicembre, l’azienda parla di una carenza di acido solforico, necessario per estrarre il metallo dalle miniere. L’annuncio di Kazatomprom non ha fatto altro che alimentare le incertezze di possibili intoppi nelle forniture, iniziati già dopo il colpo di Stato in Niger dello scorso luglio.

Le strategie in campo

La continua corsa al rialzo dei prezzi dell’uranio ha mandato in allerta quei Paesi che producono una parte della propria energia con il nucleare. Tra loro c’è anche la Francia, che ha iniziato a correre ai ripari già lo scorso anno. Dopo l’escalation in Niger, che rappresentava il secondo fornitore di uranio per il Paese d’Oltralpe, Emmanuel Macron ha iniziato un tour diplomatico in Asia Centrale per stringere nuovi accordi per l’approvvigionamento del metallo. A muoversi sono anche gli Stati Uniti, che per la prima volta dopo quasi un decennio hanno aperto una nuova miniera di uranio dentro i confini americani. Si tratta dell’impianto di Pinyon Plain, in Arizona, a poche miglia dal parco nazionale del Grand Canyon. Alla Cop28 di Dubai, una ventina di Paesi hanno stretto un accordo per «triplicare le capacità energetiche nucleari nel mondo entro il 2050». Complice il rinnovato interesse per l’energia atomica, tutto sembra indicare che la domanda di uranio continuerà a crescere anche nei prossimi anni. Ma se l’offerta non dovesse riuscire a tenere il passo, l’impennata dei prezzi potrebbe spingere qualcuno a cambiare idea.

EPA | L’incontro tra il presidente francese Emmanuel Macron e il presidente kazako Kassym-Jomart Tokayev ad Astana (1 novembre 2023)

Foto di copertina: EPA/Stephanie Lecocq | La centrale nucleare di Doel, in Belgio (19 settembre 2022)

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