Tregua a Gaza, Hamas frena: «Condizioni non soddisfacenti ma continuiamo a trattare». Il leader Sinwar: «È una trappola»

Il nodo è l’assenza di un impegno da parte di Israele a terminare il conflitto. Proteste a Tel Aviv per chiedere il rilascio degli ostaggi

Una risposta definitiva sulla bozza di accordo per il cessate il fuoco temporaneo a Gaza non è ancora arrivata, ma difficilmente sarà positiva. La mediazione egiziana non sembra essere riuscita lì dove quella qatarina aveva fin qui fallito. «La posizione sull’attuale documento negoziale è negativa», ha detto Osama Hamdan, alto rappresentante di Hamas in Libano in una intervista ad una tv locale, ripresa dal New York Times. Secondo quanto trapelato nei giorni scorsi, sul tavolo dei vertici del partito milizia palestinese c’era una proposta di 40 giorni di tregua e il rilascio in tre fasi di 30 ostaggi, quelli che si ritiene siano ancora in vita dall’attacco dello scorso 7 ottobre. Non deve suonare come una sorpresa il raffreddamento delle speranze sul raggiungimento di una intesa, perché né Israele né Hamas hanno rinunciato a posizioni tra loro inconciliabili. Dall’ufficio di Netanyahu è trapelato che il premier non avrebbe mai accettato un accordo per porre fine permanentemente alla guerra. Nella notte il leader dei miliziani palestinesi Yahya Sinwar aveva definito «una trappola» la proposta sul tavolo, perché «non è una proposta egiziana, ma una proposta israeliana sotto mentite spoglie». Nella quale mancava alcun tipo di impegno alla fine prolungata del conflitto. Gli obiettivi delle due parti in guerra sono opposti. Netanyahu vuole riportare a casa chi ancora è prigioniero nelle mani di Hamas, per ridurre la pressione interna e portare a casa un risultato che non sia solo miltare, mentre il partito milizia vuole allontanare lo spettro dell’operazione di terra su Rafah e divincolarsi dalla morsa dell’Idf.


Ancora negoziati

«Anche se il gruppo non accetta le attuali proposte israeliane senza modifiche, siamo disposti a continuare a negoziare», ha detto ancora Hamdan, di fatto certificando il fallimento della proposta che fino a due giorni fa Stati Uniti, Regno unito e altri attori regionali ritenevano risolutiva. «Crediamo che tutti gli sforzi debbano essere compiuti per convincere Hamas ad accettare immediatamente l’accordo», afferma la portavoce della Casa Bianca, Karine Jean-Pierre, assicurando che «nessuna risposta è arrivata ancora da Hamas». Intanto l’esercito israeliano annuncia di aver colpito «l’imbocco di un tunnel e una postazione di lancio di mortaio nel centro della Striscia dopo che erano stato tirati numerosi proiettili contro i soldati che operavano nell’area» e «altre infrastrutture di gruppi terroristici della Striscia, inclusi tunnel, edifici ed operativi». Ma come si diceva, la pressione interna rimane alta sulla questione ostaggi. Il traffico sulla tangenziale di Tel Aviv questa mattina, 2 maggio, è stato bloccato da un gruppo di manifestanti tra i quali anche parenti dei prigionieri. O gli ostaggi o Rafah, recitavano i cartelloni in segno di protesta: «Entrare a Rafah significa rinunciare alla vita degli ostaggi. Ci hanno promesso per sei mesi che solo la lotta avrebbe riportato indietro i rapiti, oggi capiamo tutti che l’unico modo per salvare coloro che sono possibili è solo attraverso un accordo», ha detto una manifestante alla tv locale. Ma con o senza accordo, Netanyahu questo lo ha detto chiaramente, l’operazione militare su Rafah ci sarà. E il timore è che il tempo stia per scadere.


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