Sara, 12 anni, e la sindrome di Dravet: «È una forma rara di epilessia, ha 40-50 crisi al mese»


Sara è una bambina di dodici anni affetta dalla Sindrome di Dravet. Ovvero una forma rara di epilessia di origine genetica che si manifesta nel primo anno di vita. È caratterizzata da crisi epilettiche frequenti, prolungate e resistenti alla terapia. Colpisce un bimbo ogni 30-40mila in Italia. Sua madre si chiama Chiara Rocchia, ha 34 anni e vive a Cuneo. Dalla diagnosi di encefalopatia (all’età di quattro mesi) la segue a tempo pieno. A oggi non esiste una cura. L’Associazione Gruppo Famiglie Dravet ha deciso di aderire al Bando Seed Grant di Fondazione Telethon per i fondi alla ricerca, fa sapere La Stampa.
La giornata di Sara
Chiara racconta a Franco Giubilei che Sara «al mattino va a scuola, a volte alle 8, a volte alle 11 e a volte salta, perché le sue crisi epilettiche si verificano di notte e bisogna vedere come si sente al risveglio. È arrivata ad averne cento in un mese, ora siamo fra le quaranta e le cinquanta. Frequenta un’associazione sportiva, per bambini con disabilità e normodotati, dove partecipa a giochi a squadre. Spesso la porto in piscina, dove molti limiti fisici spariscono, una cosa che le piace moltissimo».
Fa anche equitazione «grazie all’associazione di mia sorella, un’attività che la impegna totalmente catturando la sua attenzione: monta senza sella con lei vicino e vanno per pascoli, Sara ha imparato piano piano e ora si tiene da sola in equilibrio. Sulle gambe, a terra, invece è molto instabile. Riesce a camminare da sola, ma comincia a incurvarsi e barcollare, per cui adesso usiamo di più la carrozzina. Però non si rende conto della sua condizione e quindi vive felicemente».
Caregiver a tempo pieno
Intanto Chiara è diventata «caregiver a tempo pieno, specialmente al mattino, quando c’è da alzarla dal letto e si fa gestire solo da me. Mio marito, quando lo fa, ci mette un’ora per convincerla a prendere la medicina e prepararsi. Io in mezz’ora ci riesco». Per lei non c’è altra occupazione: «Ho lavorato qualche ora al giorno da mio marito, che fa il pizzaiolo, finché è stato possibile e poi in un baby parking, ma ho dovuto lasciare perché negli orari di Sara non potevo essere presente. A vederla da fuori la malattia non sembra così impattante, anche se comincia a barcollare: si nota un ritardo cognitivo, non sa leggere né scrivere. Ma ha avuto tantissime crisi epilettiche, fino a cento al mese, mentre ora sono 40-50, quasi sempre di notte. Poi ci sono i comportamenti oppositivi, quando può buttarsi per terra e il fatto che io ci sia diventa indispensabile».
24 ore su 24
Chiara dedica alla figlia «nelle giornate normali 24 ore su 24. Stacco nelle ore in cui è a scuola». Due ore a settimana «le educatrici dell’Asl vengono a fare assistenza. D’estate poi fanno dei gruppetti di bambini e li portano in piscina o al parco acquatico. Sara è contentissima, si riguarda i video. D’estate poi fa il centro estivo della parrocchia. A casa, in giardino, ci siamo attrezzati con una piscinetta e stiamo in compagnia». Suo marito «non è il papà della bambina, è arrivato quando Sara aveva 5 anni, ma le è sempre stato vicino. Se ho bisogno di uscire con le mie amiche o di una breve vacanza è il primo a dire: “vai”. Con lei bisogna staccare ogni tanto, altrimenti dai di matto».
La figlia tutto il giorno «ascolta musica dalla sua cassa portatile con una playlist aggiornata da me di volta in volta in base a quello che le piace: da Cuoricini alle canzoni dello Zecchino d’oro, da Geolier alla musica di Peppa Pig. Le piacciono anche le cose che ascolta il fratello più grande, pure la trap…».
Una vita autonoma
Chiara sa che la figlia «non potrà mai avere una vita autonoma, sarà sempre dipendente da qualcuno. L’anno prossimo la iscriveremo alle medie, ma non sappiamo se fra quattro anni potrà continuare alle superiori o dovrà andare in un centro diurno. Dipende dall’evoluzione della malattia. Ma non voglio pensare al futuro, se no uno viene preso dal magone». Dal punto di vista terapeutico «la speranza, anche tramite Telethon, è che la ricerca proceda e che vengano trovati dei farmaci che migliorino la situazione. In dodici anni però non abbiamo visto un medicinale veramente efficace. Si punta sulle terapie geniche perché i topi malati di Dravet in questo modo sono guariti: questa sarebbe la svolta definitiva. I ricercatori ci mettono l’anima, vedremo, anche se ho molti dubbi sulle probabilità».
Foto copertina da: La Stampa