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«Israele è governato da fanatici senza orizzonte. L’Europa deve fermarli»: parla lo storico Eli Barnavi, ex ambasciatore a Parigi

31 Luglio 2025 - 05:53 Simone Disegni
L'ex rappresentante dello Stato ebraico in Francia a Open: «Questo governo non ha più la maggioranza, bene ogni azione esterna che possa farlo cadere, sanzioni comprese»

«Siamo governati da dei pazzi che non hanno alcun orizzonte oltre quello della guerra: ormai siamo nel campo della psico-patologia. Bisogna fermarli». Eli Barnavi parla in un francese forbito, ha il tono felpato del diplomatico e la profondità d’analisi dello storico, ma il suo j’accuse contro il governo Netanyahu è durissimo. L’ex ambasciatore d’Israele in Francia (primi anni 2000) risponde alle domande di Open dal suo studio di Tel Aviv a pochi giorni dall’annuncio di Emmanuel Macron sul riconoscimento unilaterale della Palestina e all’indomani del “raddoppio” firmato Keir Starmer: causa per cui lui, non appena smessi i panni ufficiali del rappresentante d’Israele e indossati quelli dell’intellettuale pubblico, s’è battuto per anni, in chiave di rilancio del processo di pace. Non che quella mossa possa avere delle conseguenze dirette sul piano pratico, evidentemente, ma – sostiene Barnavi – di fronte alla deriva di Israele, ormai «sgovernata» da partiti senza più maggioranza nel Paese, tutti devono fare la loro parte per imprimere una svolta capace di far saltare il banco. E l’Europa in questo ha un ruolo chiave da giocare.

Barnavi, lei rappresentò Israele in Francia tra il 2000 e il 2002, in un’altra stagione drammatica di odio e violenza in Medio Oriente, quella della Seconda Intifada. Com’è cambiata l’immagine di Israele in Europa rispetto ad allora?

Eli Barnavi, 79 anni, ex ambasciatore di Israele in Francia, è docente e scrittore

«Anche quello era un periodo difficilissimo per la diplomazia israeliana. C’era in sella un altro governo di certo non amato in Europa, quello guidato da Ariel Sharon. Eppure ci si poteva parlare, io stesso ho visto sotto i miei occhi i suoi conciliaboli dell’epoca con Jacques Chirac o con altri dirigenti francesi. Oggi dopo l’attacco feroce del 7 ottobre siamo precipitati in questa guerra selvaggia condotta da un governo di estrema destra con elementi fanatici e messianici che è del tutto indigesto alla gran parte della comunità internazionale. Dunque le condizioni politiche, militari e diplomatiche sono completamente diverse: è l’epoca più difficile da sempre di isolamento, ostilità e repulsione verso Israele, il momento più basso di collocazione di Israele tra le nazioni. C’entrano le immagini intollerabili che arrivano da Gaza e il numero esorbitante di morti, ovviamente, ma soprattutto il fatto che non si vede come Israele abbia idea di uscire da questa situazione. Non esiste altro disegno al di là della guerra, alcun orizzonte politico o diplomatico. E questo il mondo non ce lo perdona».

Neppure Donald Trump alla fine perdonerà Netanyahu?

«Impossibile capirlo. Da un lato ha detto a Netanyahu fai ciò che vuoi, ma dall’altra coltiva questa visione grandiosa di riorganizzare il Medio Oriente in conformità ai suoi interessi e il sogno del Nobel per la Pace. Tant’è che lo stesso Netanyahu esita a capire dove vada davvero a parare. Insomma dipendiamo dai suoi umori cangianti. Ma proprio da qui deriva a maggior ragione l’esigenza di azione dell’Europa, anche perché c’è un vuoto di azione in primis sul piano intellettuale».

Dopo la Francia anche il Regno Unito ha annunciato che riconoscerà unilateralmente lo Stato palestinese, e altri sembrano pronti a seguirne le orme. È un problema o un’opportunità per Israele?

«Sono decenni che milito per questa scelta, ovviamente penso quindi sia un’ottima cosa, un’opportunità perché si creino le condizioni perché qualcosa cambi, e magari gli Stati Uniti poi si accodino. L’impressione è che nei prossimi mesi assisteremo a un vero e proprio tsunami diplomatico. Netanyahu e i suoi sono arrivati al punto in cui non sanno più dove vogliono andare – vagheggiano di annessioni e trasferimenti forzati, dunque pulizia etnica, ma Bibi stesso capisce che è difficilissimo realizzarle con tutto il mondo contro. Nel mezzo sta l’esercito, che dice al governo: “Abbiamo esaurito gli obiettivi militari, che dobbiamo fare?”. E il governo non sa rispondere. Siamo alla vertigine politica, militare e diplomatica: un momento molto raro in cui non si sa più come uscire da una guerra che pure si domina. In questo senso Netanyahu si trova in condizioni molto simili a quelle di Putin».

Anche tra chi crede nellurgenza di chiudere la guerra e riaprire la stagione del dialogo c’è però chi si chiede: che senso ha riconoscere uno Stato che sul terreno non esiste?

«È vero, non c’è dubbio che si tratta di un’azione puramente simbolica. Ma i simboli contano in diplomazia: significa dire non siamo disposti ad accettare l’amputazione territoriale del futuro Stato, lo spostamento forzato della sua popolazione, indicare insomma che ci sono dei limiti da non superare. E così si mette sotto pressione per agire lo stesso Trump, o la Germania di Friedrich Merz che pure esita per ragioni evidenti di psico-diplomazia».

E l’Italia?

«Credo sia un caso ancora diverso perché Giorgia Meloni si è mostrata nel tempo molto vicina a Israele e ancor più a Trump, ma si muove su un terreno ambiguo perché vuole avere al contempo un ruolo in Europa. Il che mi fa pensare che neppure lei potrà resistere a lungo alle pressioni dell’opinione pubblica per allinearsi agli altri partner europei. Quel che più conta comunque, visto da qui, è che Israele non è la Corea del Nord: non può permettersi di vivere da sola, isolata da tutti, come un pariah internazionale».

Eppure le frange nazionaliste o messianiche al governo di Israele, che rappresenta legittimamente la maggioranza dei suoi cittadini, non sembrano pensarla così.

«Questo governo non ha più la maggioranza nel Paese e ce l’ha ormai a stento in Parlamento. Oltre il 70% degli israeliani vuole che Netanyahu se ne vada. Alle prossime elezioni non avrà più la maggioranza, e alcuni dei partiti che oggi lo sostengono – a cominciare da quello di Bezalel Smotrich – non supereranno neppure la soglia di sbarramento. L’opinione pubblica resta a destra, ma vuole la fine della guerra e il ritorno degli ostaggi perché capisce che così non si può andare avanti. Netanyahu però ha altro tempo davanti perché il Parlamento ora è in pausa estiva, dunque può continuare ancora la guerra. Si torna pertanto sempre lì: spetta ora agli attori internazionali agire».

Oltre al riconoscimento della Palestina sul tavolo dei governi europei c’è anche la possibilità di punire Israele sospendendo per esempio in parte o in toto l’Accordo di Associazione con l’Ue. Da Israele rimbalzano appelli di intellettuali, artisti ed ex dirigenti a favore di sanzioni internazionali del genere. Lei è d’accordo?

«Agli amici europei che mi chiedono lumi in merito rispondo così: dovete agire in funzione dei vostri interessi e valori. L’articolo 2 dell’Accordo di Associazione Ue-Israele menziona i valori su cui si deve basare la relazione, a partire dai diritti dell’uomo. Ora si parla di agire su Horizon, il programma di finanziamento per ricerca e innovazione: c’è chi è a favore e chi è contro, ma già il fatto che se ne parli indica lo spirito che si respira nelle capitali. Penso che alla fine delle misure di pressione saranno decise. E sì, io sono favorevole a qualsiasi azione suscettibile di far cadere la classe dirigente che sta guidando ora questo Paese e di farci uscire da questa situazione».

Crede che Israele potrà risalire dall’abisso di ostilità internazionale in cui pare sprofondato? Come?

«Sono uno storico, dunque non credo all’irreversibilità delle situazioni storiche. So che altri Paesi che hanno conosciuto fasi penose di isolamento internazionale ne sono uscite. Se la guerra si fermerà certo resteranno delle tracce, ma alla fine se ne potrà uscire. Anche perché la gente continua ad andarsene dal Paese, e sono tipicamente gli elementi più produttivi, e rischia di essere sempre peggio. E poi ci sono da risolvere altre fratture interne: con gli ultraortodossi, con gli arabi. Ma trovo surreale che un Paese così forte militarmente e con una situazione geopolitica ora per molti versi favorevole sia così a terra. Un’altra dirigenza potrebbe stravolgere questa situazione sfruttando il momento di rare buone condizioni nel vicinato per una nuova rinascita».

Tra gli altri attori sulla scena politica israeliana vede protagonisti con le qualità necessarie a interpretate tale missione?

«Nell’immediato no. Il meglio che posso sperare è che alle prossime elezioni Netanyahu sarà sconfitto e rimpiazzato da un governo comunque prevalentemente di destra ma di gente “normale”, che magari non adorerà i palestinesi ma che almeno sarà in grado di riflettere, calmare gli animi della nazione e cercare di normalizzare la situazione, di capire la realtà della regione e del mondo. Si tornerà a dialogare col mondo, e poi vedremo in una seconda fase come procedere su questa base. Questo è la mia scommessa».

Per concludere, nei giorni scorsi un ebreo francese con un figlio piccolo è stato insultato e spintonato in un Autogrill alle porte di Milano al grido di “Free Palestine”. L’Europa torna a essere un posto pericoloso per gli ebrei? 

«Ci sono decine di episodi sgradevoli e inquietanti come questo, c’è una brutta tendenza, di antisemitismo ma anche di pure razzismo contro gli israeliani in quanto israeliani. È un fenomeno legato al conflitto a Gaza? Certo. Se si ferma la guerra smetteranno? Forse, ma difficilmente del tutto. Detto ciò non penso sia in questione la vita degli ebrei in Europa. E il fatto che succedano queste cose comunque non influisce sulle azioni che dobbiamo condurre per far cambiare la situazione di cui detto. Quindi mi concentro su ciò che noi possiamo fare, giorno per giorno».

Foto di copertina: EPA/ABIR SULTAN | Il premier israeliano Benjamin Netanyahu con il leader di Otzma Yehudit e ministro della sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir – Gerusalemme, 18 novembre 2024.

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