La Global Sumud Flotilla e gli attivisti che lasciano la missione: «Si rischia una risposta violenta»


La Global Sumud Flotilla perde pezzi. Venti persone, di cui la metà italiane, hanno abbandonato la missione. Qualcuno per stanchezza o impegni, qualcun altro per paura. Qualcuno anche in disaccordo con il direttivo e le sue decisioni. Come l’ultima, quella di rifiutare la proposta del presidente della Repubblica Sergio Mattarella sugli aiuti da consegnare al patriarca di Gerusalemme Pierbattista Pizzaballa. Intanto le Ong fanno sapere che dai pacchi umanitari per Gaza Israele impone di togliere i prodotti «ad alto contenuto energetico per donne e bambini». E la docente di diritto internazionale Francesca De Vittor dice che «se ragioniamo in termini di diritto internazionale, la Flotilla non commetterebbe nessun illecito nel portare gli aiuti perché è il blocco navale a essere illegittimo».
Le liti sulla Flotilla
Nelle ultime missioni della Flotilla forzare il blocco navale israeliano era interpretata politicamente. Ovvero l’idea era di arrivare a ridosso delle acque internazionali e poi arrendersi all’esercito di Israele. Ora, spiega La Stampa, qualcuno vuole andare oltre. Rischiando una risposta violenta. C’è anche da considerare che ogni capitano della Flotilla ha la responsabilità della sua barca. E quindi il singolo potrebbe decidere di staccarsi lungo il percorso. Per un motivo o per un altro. Mancano cinque giorni all’arrivo davanti alla Striscia. Una dei due portavoce della delegazione italiana della Flotilla, Maria Elena Delia, oggi torna in Italia. Proprio per cercare un punto di mediazione con le autorità. Si parla di un incontro alla Farnesina e di interlocuzioni con la Cei.
I parlamentari sulle navi
Arturo Scotto, Annalisa Corrado, Marco Croatti e Benedetta Scuderi, parlamentari di Pd, M5s e Avs, cercano una soluzione diplomatica. Voglio evitare lo scontro finale, con la sfida alle navi militari israeliane. Anche se dai leader dei partiti arrivano segnali contrastanti. E, sempre secondo il quotidiano, ci sarebbe per loro un piano B. Anche se nessuno lo ammette esplicitamente, potrebbero fermarsi all’ultima tappa prima del traguardo. Ovvero a Cipro. Anche se «ad oggi non c’è intenzione di sbarcare», dice Scuderi. Il rischio di disimpegno da una missione che ormai ha una dimensione mediatica superiore alle aspettative è alto.
Il governo e la Gsf
Intanto il governo valuta l’opzione estrema. Ovvero una zona cuscinetto in acque internazionali. Un intervento preventivo e non bellico che l’Italia potrebbe condividere con la Spagna e la Grecia. Per evitare che la Global Sumud Flotilla provi a sfondare il blocco di Gaza. Nella memoria c’è il 2010, quando dieci attivisti vennero uccisi durante l’assalto israeliano alla Freedom Flotilla. Giorgia Meloni e Antonio Tajani cercano un gesto anche simbolico per convincere gli attivisti a fermarsi. L’esecutivo ha anche paura delle possibili manifestazioni. Il Viminale è pronto a riunire il comitato di sicurezza. «C’è l’intenzione, da parte di alcuni, di trasformare questa causa in qualcosa che potrà riflettersi nelle nostre piazze», ha detto il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi.
Il canale umanitario permanente
La posizione della Flotilla è sempre la stessa: gli attivisti chiedono la fine del blocco navale e l’apertura di un canale umanitario permanente. «È curioso che si chieda a noi di fare un passo indietro e si tratti con uno Stato genocida, che da anni viola ogni norma e convenzione. Noi sappiamo di avere dalla nostra il diritto internazionale», dice a Repubblica David Adler, ebreo americano, in passato consulente di Bernie Sanders e oggi coordinatore di Progressive international dal ponte della Alma.
Delia, docente di professione, era agli sgoccioli della sua aspettativa. Quindi dalle navi sarebbe dovuta scendere lo stesso. Ma secondo gli attivisti il suo arrivo in Italia vuole dire che una soluzione per la mediazione ancora c’è. Per esempio la strada egiziana. Che prevederebbe lo sbarco dei carichi di aiuti a Port Said e il trasferimento via terra a Rafah. Intanto nelle chat collettive iniziano ad arrivare messaggi sui droni: «Eccone un altro».
I confini delle acque internazionali e il diritto
Nel frattempo la professoressa Francesca De Vittor, docente del corso di Diritti dell’uomo presso l’Università Cattolica, spiega a La Stampa che «se ragioniamo in termini di diritto internazionale, la Flotilla non commetterebbe nessun illecito nel portare gli aiuti a Gaza perché è il blocco navale a essere illegittimo. Poi va considerata la risposta di Israele che come sappiamo può essere molto pericolosa, ma guardando alle convenzioni internazionali la Flotilla non sta violando nessuna norma».
E questo perché «quelli non sono i confini di Israele né le acque territoriali israeliane, ma palestinesi. Indipendentemente dal riconoscimento o meno dello Stato di Palestina, non sono acque israeliane. Il diritto internazionale impone che non si possano riconoscere effetti giuridici ad annessioni territoriali illecite. E dunque non si può attribuire quel mare, antistante Gaza, a Israele. Su questo è intervenuta anche la Corte internazionale di giustizia nel parere del 19 luglio 2024, e poi nella risoluzione dell’Assemblea Generale Onu che chiede a Israele di cessare l’occupazione di tutti i territori palestinesi, tra cui Gaza».
Il blocco navale
Secondo De Vittor il blocco navale è illegittimo nella misura in cui concerne l’ingresso di aiuti umanitari. Un blocco navale, benché sia un istituto previsto dal diritto di guerra, non può mai essere funzionale ad affamare una popolazione civile, in questo caso costituisce violazione del diritto internazionale umanitario. Anche qualora questa non ne fosse la finalità, un blocco navale non può mai essere impiegato per impedire l’arrivo di aiuti umanitari quando i civili non sono sufficientemente approvvigionati. La starvation è un crimine di guerra e può essere inteso come uno strumento per realizzare il genocidio, come appare chiaro nelle ordinanze della Corte internazionale di giustizia che impongono a Israele di permettere gli aiuti come conseguenza dell’obbligo di prevenire il genocidio. E sono vincolanti».
Se Israele attacca una nave italiana
Se l’esercito di Israele attacca una nave italiana «sono possibili tutte le contromisure pacifiche contro lo Stato come le sanzioni economiche. Inoltre è lecito l’uso della forza a protezione dei propri cittadini per fermare un attacco in corso, una nave della Marina militare potrebbe lecitamente abbattere i droni che attaccano la Flotilla perché così difenderebbe gli italiani. Saremmo nel campo della protezione della vita delle persone: una reazione non solo giustificata ma doverosa. L’Italia ha un obbligo di tutela derivante dai trattati sui diritti umani». Il caso peggiore sarebbe «l’attacco o l’abbordaggio della nave, con l’arresto delle persone. Sarebbero un illecito internazionale, anche in questo caso quindi il nostro paese sarebbe legittimato a rispondere con contromisure pacifiche».
No a biscotti, miele e marmellata
In ultimo l’ong Music For Peace denuncia che dai pacchi umanitari destinati alla popolazione di Gaza vanno tolti gli alimenti «ad alto contenuto energetico per donne e bambini». Lo impone il Cogat, l’agenzia governativa israeliana che gestisce l’ingresso degli aiuti nella Striscia. L’ong avrebbe dovuto partire la prossima settimana con 300 tonnellate di beni di prima necessità diretta a Gaza dalla Giordania. Ma le è stato chiesto di smembrare e lasciare fuori dai pacchi famiglia alimenti a base di «amido e zucchero», conferma una nota della Jhco, responsabile dei passaggi dei convogli in Giordania.