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Un cowboy generato dall’AI guida la classifica della musica country Usa: chi è, cosa canta (e cosa c’è da aspettarsi in Italia)

13 Novembre 2025 - 16:48 Gabriele Fazio
Non è la prima volta che un algoritmo arriva in vetta. Ma è tanto peggio del piattume della musica nostrana?

La voce è profonda, suadente, la melodia malinconica, come solo quella di un cowboy sa essere. Un cowboy vecchia scuola, di quelli col cappello che sta una favola, sguardo bello e maledetto, malconcio dalla vita, nostalgico e profondo. Il suo nome è Breaking Rust e con Walk by Walk ha conquistato la vetta della classifica Billboard relativa al country, un’istituzione culturale che negli Stati Uniti è popolare quanto se non, in certe zone, anche più, delle star la cui luce tocca anche le sponde di questa parte dell’oceano. Tutto perfetto, peccato che l’artista in questione non esista, sia parto della famigerata Intelligenza Artificiale.

Era solo questione di tempo, chi smanetta sui divertentissimi siti per la creazione di musica tramite AI come Suno o Soundraw o Soundful o Udio non si stropiccerà gli occhi per la sorpresa. Chi invece ha a cuore l’umanità nella musica sarà (dovrebbe) mettersi sull’attenti, perché, è evidente, una nuova epoca ci aspetta. E il fascinoso Breaking Rust, che in italiano si traduce “Togliersi di dosso la ruggine”, che suona anche come una metafora piuttosto pungente, potrebbe rappresentare un primo passo.

Non tanto perché i suoi pezzi, frutto di chissà quale intreccio di algoritmi e diavolerie informatiche, sono effettivamente piacevoli da ascoltare, ma perché pare che per il pubblico non faccia questa grande differenza. I suoi numeri parlano chiaro: quasi due milioni e mezzo di ascolti mensili su Spotify, che non sono un’enormità per il mercato a stelle e strisce ma che certificano il raggiungimento dell’unico obiettivo che conta: una cieca accettazione da parte del pubblico.

I precedenti che abbiamo ignorato

Breaking Rust non è di certo il primo artista a sfondare il muro dei milioni di ascolti senza esistere davvero, già abbiamo assistito a fenomeni come i Velvet Sundown, che Spotify descrive come: «Un progetto musicale sintetico guidato dalla direzione creativa umana, e composto, interpretato e visualizzato con il supporto dell’intelligenza artificiale», che lo scorso giugno hanno attirato l’attenzione della rete con la pubblicazione di due interi album nell’arco di un paio di settimane.

Chi era riuscita a compiere un’impresa simile a quella del malinconico cowboy di cui sopra fu Xania Monet, che con Let Go, Let God toccò il podio della classifica Billboard dedicata al gospel, altra fondamentale istituzione ammmericana. In Europa, per la precisione in Germania, i Verknallt in einen Talahon si ritagliarono un posto nella Top50 di Spotify. Tutti progetti guidati da esseri umani, è chiaro, ma integralmente costruiti tramite AI, fenomeni che abbiamo snobbato come divertenti aneddoti da bar, senza considerarli mai semi di una pericolosissima pianta carnivora che rischia di divorare il mercato.

L’Intelligenza Artificiale è già nella musica italiana

Sono anni che, specie in occasione del Festival di Sanremo, si tenta di misurare l’intervento dell’Intelligenza Artificiale nella musica italiana. Spoiler: come dimostra anche un articolo di Open non è al momento possibile stabilire con certezza se e in che quantità una canzone sia composta, soprattutto scritta, con l’aiuto dell’AI.

Ciò non toglie, anzi il contrario, che certi strumenti esistono e vengono utilizzati, e, cosa assai più grave, sono diventati un elemento degli ingranaggi fissi dell’industria discografica. Il punto è stabilire cosa intendiamo per Intelligenza Artificiale, cosa esattamente ci dà fastidio di un’opera che non ha alcuna proprietà intellettuale precisa. Posto che la regolamentazione rispetto il copyright è ancora piuttosto incerta per quanto riguarda l’argomento, la percezione che abbiamo è che non ci piace, non ci sembra genuino, farci emozionare, tramite musica, da composizioni frutto di un algoritmo. Corretto. Ci sta.

Ma la verità è che il pubblico italiano già vive una situazione falsata, forse non da un computer, il che rende tutto ancor più grave. Nello specifico: un algoritmo che mette insieme voci, sonorità, parole, raccolte a piene mani dal nostro patrimonio cantautorale, è tanto più offensivo di un’industria che, scientemente, presenta una clamorosa e ormai assai preoccupante uniformità?

L’attesa del digitale

Un’industria concentrata nel produrre senza sosta, in maniera ben poco sana, musica take away, che tarpa qualsiasi velleità artistica fuori dai canoni di playlist e chart, lasciando isolati sperimentatori, intellettuali e, in generale, gli artisti veri? Perché c’è solo una soluzione quando il problema è l’artificio, ed è l’onestà. Riconoscerla e darle il giusto valore. Ci verrebbe da dire che arriverà prestissimo il momento in cui idolatreremo fenomeni virtuali, che accorreremo numerosi per ascoltare cantare un ologramma, la riproduzione eterea, inesistente, intangibile, di ciò che l’industria insiste con ferocia affinché ci piaccia, se non fossimo concettualmente convinti che quella realtà esiste già e che, così facendo, l’industria si divorerà e svaluterà da sola ancor prima che l’Intelligenza Artificiale possa fare il suo.

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