Spazi di coworking: una possibilità per i freelance, ma mancano gli investimenti pubblici

Cambia il modo di lavorare e cambiano gli spazi di lavoro. Gli ambienti condivisi dai lavoratori autonomi per lo svolgimento delle loro professioni sono in continuo aumento in Italia, ma gli incentivi pubblici sono ancora pochi

Il posto fisso non esiste più, i contratti “stabili” sono sempre più rari, e aumentano i lavoratori che si trovano nell’area grigia tra lavoro autonomo e lavoro dipendente. Non bastasse l’esperienza quotidiana, lo confermano anche gliultimi dati Istat sull’andamento del lavoro.Una prima risposta spontanea a questa nuova “geografia” del lavoro è arrivata dalla diffusione del modello coworking, spazi di lavoro condivisi, usati soprattutto dai lavoratori autonomi.


Ilcoworkingè la sintesi di due nuovi approcci al lavoro e all’economia: losmart working,cioè il”lavoro agile” che permette di operare anche lontano dall’ufficio, e quello della sharing economy, cioè il modello economico basato sullo scambio e sulla condivisione. In alcuni (per la verità ancora pochi) comuni,Milano in primis, gli spazi di coworking a pagamento stanno prendendo rapidamente piede. Quello che manca sono gli spazi gratuiti, perché gli investimenti pubblici in questo senso sono ancora pochi. Le città italiane che sono riuscite a riqualificare edifici in disuso o ad adibire spazi ad hoc per il lavoro in aree condivise sono ancora pochissime.


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Bandi europeie iniziative locali

Secondo un rapporto dell’Enea, l’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile, nel 2017 risultavano 578 centri di coworking, 326 situati in regioni del Nord Italia, 161 del Centro e 91 del Sud e delle Isole. A fronte dell’evidente – e rapida- diffusione del fenomeno, alcune regioni italiane hanno iniziato a condurre dei censimenti locali per capire quanti spazi di co-lavoro fossero presenti sul territorio.

In totale, in Italia meno del 30% degli spazi ha potuto beneficiare delle agevolazioni comunali.Come si legge in un recente report, davvero pochi coworkdichiarano di aver «ricevuto supporto significativo da agenzie locali di sviluppo, Camere di commercio e altri attori degli ecosistemi locali per l’innovazione (6%). Complessivamente si registrano nessuna (67%) o scarse interazioni (19%) per la creazione di reti o per l’individuazione di nuove opportunità di business».

La Regione Lazio, grazie ai contributi del fondo sociale europeo, sta cercando di agevolare la crescita dell’ecosistema coworking. Dal 2016 al 2019 sono stati stanziati sei milioni di euro per aiutare sia i lavoratori autonomi nel pagamento delle tariffe, sia giovani imprenditori per aprirenuovi spazi di lavoro condiviso. Le iniziative direttamente relative alle amministrazioni pubbliche sono, in ogni caso, ancora scarse.

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Il primato del Nord

La regione Lombardia è stata una delle prime a rendersi conto della portata del cambiamento, complici anche i numeri di una città come Milano, che al momento non ha paragoni in Italia per quantità di spazi di condivisione per professionisti freelance. In occasione della Settimana del lavoro agile,il Comune ha messo a disposizione delle postazioni gratuite all’interno dei coworkdella città. Un’iniziativa che però ha risolto solo per qualche giorno la questione dei prezzi: Milano è la città più cara per i freelance che cercano una scrivania condivisa.

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Grafico ENEA|Grafico ENEA

All’inizio del 2014, il comune di Bologna ha adottato il Regolamento sulla collaborazione fra cittadini e amministrazione per la cura e la rigenerazione dei beni comuni urbani, che promuoveva la gestione comune degli spazi pubblici e degli edifici della città per qualsiasi scopo di «innovazione»e di «miglioramento della qualità della vita nelle città».Tra queste, è indicizzata l’innovazione digitale (art.9). Alla proposta per l’amministrazione condivisa hanno aderito numerosi comuni del Paese, ma a oggi non è stata ancora avviata una vera e propria gestione comunale che possa trovare nei coworkper freelance il corrispettivo delle biblioteche per gli studenti.

“Nomadi” e voucher: le peculiarità del Sud

Per quanto il Nord siala parte del Paese con la maggior presenza di spazi di lavoro di questo tipo, il Sud – e in particolare le Isole – ha da poco iniziato a muoversi seguendo i cambiamenti del mondo del lavoro. In Sicilia ha gettato le basi del coworking il programma europeo Interreg Italia-Malta 2007-2013. La Commissione, da Bruxelles, ha stimolato la creazione di hub di lavoro e innovazione a Siracusa, Malta e Lampedusa. L’unico a sopravvivere dopo la fine del progetto è stato l’Impact Hub siciliano: grazie ad attività collaterali come l’affitto di spazi e lafrequentazione dei nomadi digitali provenienti da tutta Europa, il cowork, privato, è riuscito a sopravvivere senza fondi pubblici.

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Open Campus, il primo spazio di coworking sardo, è nato su iniziativa della sede di Tiscali a Cagliari. In uno dei suoi spazi, la società ha permesso a innovatori nel campo di digital di incontrarsi per lavorare assieme. Dopo tre anni di sperimentazione, nel 2016 il cowork si è emancipato dall’azienda e si è costituito come srl privata. Nonostante ciò, la stretta collaborazione con Tiscali è continuata, coinvolgendo in molte attività la Regione e le università locali. Anche l’Open Campus è frequentato dai nomadi digitali: è alto il numero di sviluppatori che, durante gli inverni rigidi dell’est Europa, si trasferiscono a Cagliari per lavorare da remoto.

Emblematico è il caso della Puglia, una delle poche regioni meridionali ad aver colto il trend. Lo scorso anno è stato fatto un censimento di tutti gli hub di coworking del territorio: la catalogazione era preparatoria al lancio di un bando per il 2019, di cui sono note per adesso solo le linee guida. Mirato a incentivare i professionisti a utilizzare gli spazi condivisi, il bando prevederebbe la copertura tramite voucher del 50% dei costi annuali della postazione.