Rugby femminile, storico secondo posto al 6 Nazioni. L’allenatore: «Molte di loro hanno un secondo lavoro»

La nazionale femminile di rugby ha conquistato il risultato più importante di sempre al torneo, battendo nazioni del calibro di Irlanda e Scozia. Open ha intervistato il coach Di Giandomenico, al fianco delle ragazze da 10 anni

Domenica 17 marzo, allo stadio Plebiscito di Padova, è stata scritta una pagina storica dello sport italiano: la nazionale femminile ha ottenuto il miglior risultato di sempre dell’Italia del rugby, piazzandosi al secondo posto del torneo iridato. Un’impresa mai riuscita prima. Nello scontro diretto contro la Francia le ragazze di Andrea Di Giandomenico si sono imposte per 31-12. Dopo le vittorie contro la Scozia e l’Irlanda e il pareggio con il Galles e la pesante sconfitta contro l’Inghilterra, sono riuscite ad agguantare un risultato che è già negli annali.


La nazionale femminile è sesta nel ranking mondiale, ma guai a tentare paragoni, spesso facili, con i colleghi maschi. E ora archiviato il Sei Nazioni gli sforzi sono già incentrati sul prossimo mondiale del 2021 in Nuova Zelanda dopo la partecipazione del 2017 in Irlanda, che mancava da più di 15 anni. Sul campo non c’eravamo, allora questa impresa Open se l’è fatta raccontare da chi queste ragazze le ha accompagnate per dieci anni, nelle loro sconfitte nei loro successi: l’allenatore Andrea Di Giandomenico. 


Rugby femminile, storico secondo posto al 6 Nazioni. L'allenatore: «Molte di loro hanno un secondo lavoro» foto 1

L’allenatore Andrea Di Giandomenico sugli spalti al termine della partita con la Francia

La foto di lei che si piange sugli spalti è l’immagine simbolo di questa impresa. A che cosa stava pensando?

«Come spesso accade questi episodi nascono da equivoci. Sicuramente c’era molta emozione in quel momento, era un momento personale di raccoglimento che però, attraverso i social, è diventato il simbolo pubblico di quello che è stato il trionfo delle ragazze. Ma lo accetto come tale, non mi dispiace, nonostante tutti i miei amici mi prendano in giro (ride, ndr)».

Ve lo aspettavate?

«C’era tanta consapevolezza all’interno della squadra di un lavoro che stavamo portando avanti in maniera efficace da tempo. Ci prepariamo sempre per aumentare la qualità della nostra prestazione che speriamo sempre porti a un risultato e eravamo pronti per affrontare quella partita in particolare. Ma all’inizio del torneo ci siamo detti: proviamo a giocare anche per il torneo oltre che per ogni singola partita, vediamo alla fine come arriviamo».

Quanto lavoro c’è dietro? 

«Questo è il mio decimo anno alla guida della squadra, quindi a livello temporale c’è stato tanto sforzo e sacrificio sia da parte mia che da parte di tutto lo staff. Si parla di me, ma non sono certo da solo a supportare questo gruppo e queste ragazze. Le prime protagoniste del lavoro sono però le ragazze, investono il loro tempo nel fare una cosa che le rende molto felici e contemporaneamente portano avanti anche la loro vita. Siamo cresciuti insieme, io ho dato a loro, e loro hanno dato tanto a me. 

Oltre a una struttura tecnica della federazione che mi ha sostenuto e continua a formarmi c’è un movimento, dai club, alle persone che volontariamente ogni giorno contribuiscono a fare in modo che queste ragazze possano giocare a rugby. Tutte le volte che c’è un risultato non si può prescindere dal lavoro che c’è stato dietro: può anche succedere un exploit ma raramente è frutto del caso ed è solo il duro lavoro che paga». 

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Le azzurre celebrano la vittoria contro l’Irlanda

Nonostante i risultati il divario con i colleghi maschi è tanto.

«Molte di loro hanno un secondo lavoro, abbiamo operaie, istruttrici di palestra, studentesse, è un aspetto della loro forza: l’atleta e la persona coincidono in pieno. C’è una grande ricchezza che queste ragazze portano. Sicuramente il divario esiste in tutti gli sport, è molto più faticoso per le donne in generale, parliamo di contesti culturali diversi, ma non credo che sia un aspetto da mettere in evidenza.

Dovremmo parlare solo del loro valore, e ogni tentativo di paragone rischia di sminuire quello che fanno. Sarebbe necessario aprire un dibattito serio su cosa significhi fare l’atleta professionista. Venire pagati per giocare adesso non vuol dire che poi nella vita non si debba trovare un’altra strada una volta lasciata la vita da atleta.

Sentiamo dire cose come «loro non sono professioniste e hanno risultati, mentre i maschi sono professionisti e non portano a casa risultati». Credo che questo tipo di discorsi siano generalizzati e portino solo a confondere due contesti completamente differenti». 

Cosa direbbe alle giovanissime che vogliono avvicinarsi a questo sport?

«Da ex giocatore posso dire che come tutti è uno sport contagioso. Chi prova a giocare a rugby si diverte e difficilmente può farne a meno. Sicuramente da amante dello sport trasmette molti valori educativi, prima tra tutti l’essere consapevoli che un lavoro porta a dei risultati, a un confronto con i propri limiti.

Da ex rugbista sono convinto della forte valenza educativa legata ai principi dello sport, la necessità di avanzare e di farlo assieme. Il rugby è uno degli sport di squadra per eccellenza dove il sostegno del compagno fa parte di questi principi fondamentali. All’interno della squadra si crea questo legame fortissimo che appassiona, diventa quasi una malattia da cui è difficile guarire». 

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