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Nurburgring: l’incidente che cambiò il volto di Niki Lauda e la storia della Formula 1 – Il video

21 Maggio 2019 - 10:20 Felice Florio
«Non serve una faccia per guidare, serve il piede destro». Da quell'inferno di 1000 gradi centigradi, Niki Lauda resuscitò ancora più determinato a dimostrare che era il più forte di tutti

Il primo agosto 1976 la lotta tra Niki Lauda, sulla Ferrari 312 t2, e l’eterno rivale James Hunt, in McLaren, fa scintille. A spegnerle, la pioggia improvvisa che ribalta tutte le strategie della gara. Si parte con leggero ritardo. Hunt, che vincerà il Gran Premio tedesco, è subito terzo. Lauda inizia male e si ritrova ottavo.

Nel secondo giro, dopo un frenetico cambio gomme e un testacoda del leader dalla gara Clay Regazzoni, Niki Lauda sbanda alla curva al Bergwerk, il punto più lontano del circuito dai box. Il pilota perde il controllo della sua Ferrari che esce di pista, sbatte contro il guard-rail esterno e rimbalza tornando al centro della carreggiata. La vettura prende fuoco immediatamente e Lauda è avvolto dalle fiamme.

Sopraggiunge Guy Edwards che, all’ultimo secondo, scansa la Ferrari. Non riuscirono a evitare l’impatto Harald Ertl e Brett Lunger: colpiscono in pieno l’auto in fiamme e Lauda, nello scontro, perde il casco. I tre piloti riescono a estrarre l’austriaco da quell’inferno di 1000 gradi centigradi, aiutati da Arturo Merzario che sceglie di fermarsi appena resosi conto dell’incidente. Insieme sollevano Lauda e lo mettono steso sull’erba della via di fuga. Ferito, ustionato, viene trasportato d’urgenza in elicottero all’ospedale militare di Coblenza. Il pilota vince una battaglia tra la vita e la morte e, 42 giorni dopo, è di nuovo in pista sul circuito di Monza per il Gran Premio d’Italia.

Così Lauda su Hunt, nelle parole dategli dal regista Ron Howard nel film Rush: «Per James vincere un campionato era stato sufficiente. Aveva dimostrato quello che voleva dimostrare. A se stesso, e a tutti quelli che dubitavano di lui. E due anni dopo si ritirò. Quando lo rincontrai, sette anni dopo, a Londra, io di nuovo campione e lui commentatore per la tv, era scalzo, su una bici, con una ruota a terra. Viveva ancora ogni giorno come se fosse l’ultimo. Quando seppi che era morto d’infarto a 45 anni, non ne fui sorpreso. Mi fece solo tristezza. La gente ci ha sempre visti come due rivali, ma lui mi piaceva. Era una delle poche persone che apprezzavo, e una delle pochissime che rispettavo. E ancora oggi rimane l’unico che abbia mai invidiato».

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