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Grecia / Referendum per Tsipras e il rebus immigrazione. Le sfide di Atene

Nel 2019, la Grecia sarà chiamata alle urne due volte: la prima per eleggere 21 deputati nel Parlamento Europeo, la seconda per rinnovare il Parlamento ellenico. Tra crisi economica, crisi migratoria e accordi con la Macedonia del Nord, la strada per Syriza è tutt’altro che spianata

Una faccia, una razza. I greci e gli italiani sono vicini per storia, geografia e abitudini. Ma soprattutto sono vicini per temperamento: difficilmente, dopo anni di austerity impietosa, riusciranno a dimenticare le scuse di Jean Claude Juncker pronunciate all’inizio del 2019: «Abbiamo insultato i greci. Ci sarebbe stato bisogno di solidarietà, non austerità». Il mea culpa nei confronti della costruizione di quella Troika è arrivato per molti troppo tardi, all’alba delle nuove elezioni europee.

Gli anni di severità economica hanno messo in ginocchio un Paese che prima di tutti aveva minacciato l’uscita dall’Europa, guardando a una “Grexit” di sopravvivenza sognata da Alexis Tsipras nella sua veste più radicale e dall’allora ministro degli esteri Yanis Varoufakis. Ma mentre la Grecia ritrova un posto «tra le vecchie democrazie europee» (Juncker dixit), grazie al dietrofront sulla Grexit dello stesso Tsipras (che gli costò l’affetto popolare), la strada per uscire dalla crisi è ancora lunga.

Ora la Grecia è chiamata a scegliere 21 eurodeputati che ne rappresenteranno le politiche al Parlamento Europeo. In testa ai sondaggi ci sono ancora Nuova Democrazia (PPE) e Syriza (Gue/Ngl), stavolta a posizioni invertite rispetto al 2014. Per la prima volta potranno andare al voto anche i diciassettenni, e gli elettori previsti saranno oltre 500mila in più. Ma a differenza della passata tornata elettorale, ognuno di loro arriverà alle urne con meno voglia di pensare fuori dalla scatola europea.

Tsipras il rivoluzionario, il traditore, lo statista. La sorte di Syriza a fine mandato

Secondo Kyriakos Mītsotakīs, leader di Nuova Democrazia, le elezioni europee rappresentano un “referendum” su Tsipras e il suo Syriza in vista delle legislative di ottobre. Dall’inizio del suo mandato nel 2015 fino agli ultimi mesi prima delle urne, Tsipras si è mosso tra quote di approvazione radicalmente diverse tra loro.

Quando nel 2015 Tsipras si presentò alle elezioni, la Grecia stava per affrontare il terzo piano di stabilità imposto dall’Ue, dall’Fmi e dalla Bce. Dopo l’inizio della crisi nel 2008, i livelli dell’economia greca erano da paese in guerra: nei sei anni successivi al 2008, il Pil era crollato del 25%, e i livelli di disoccupazione erano intorno al 27%. Nel 2017 il Paese è finalmente uscito dalla recessione (una crescita Pil del +2%), e nel 2018 si è concluso quel “maledetto” terzo piano di salvataggio, firmato da Tsipras dopo il dietrofront sul referendum che gli aveva chiesto un “no”.

ANSA| Alexis Tsipras e Angela Merkel in un murales ad Atene. 9 Ottobre 2015.

A quattro anni dal referendum tradito sull’austerity, buona parte di quel 61% di delusi ha iniziato a digerire la figura dello Tsipras statista, lasciando da parte l’immagine di Tsipras eroe radicale e preferendo alla parola “tradimento” la parola “realismo”. Tant’è che, in questo mese di maggio, Syriza è il secondo partito favorito per la vittoria, senza alcun rivale a sinistra, e superato di 9 punti percentuali solo da Nuova Democrazia. Con buona probabilità, Syriza guadagnerà un seggio al Parlamento Europeo, passando dai 6 del 2014 a 7.

A dar lustro alla posizione di Tsipras è stata anche la recente vittoria di Pedro Sanchez in Spagna, che ha restituito al popolo socialista la speranza che ci sia vita oltre il centrodestra. Oggi il primo ministro greco guarda alle elezioni con una colpa originaria quasi estinta e con un partito sempre vicino alla sinistra radicale (la coalizione Gue/Ngl). Ma con ancora molti nodi da sciogliere. A pochi mesi dalla fine del suo mandato, le questioni che preoccupano Tsipras sono tutt’altro che secondarie: la crisi migratoria ancora irrisolta e gli accordi con la Macedonia del Nord.

Un arcipelago di hotspot

L’isola di Lesbo è, insieme a Lampedusa, uno dei simboli della crisi migratoria. Nel 2015, il numero di rifugiati approdati sulle isole elleniche è stato di 856.723. Da quel momento in poi, il flusso di migranti in fuga verso l’Europa ha continuato a riempire gli arcipelaghi del Mar Egeo, tanto da spingere l’Ue a considerare l’idea di un accordo con la Turchia, principale passaggio per i migranti provenienti dal Medio Oriente. E così, nel 2016, l’Unione Europea ha firmato con il Paese di Recep Tayyip Erdoğan un accordo per respingere i migranti arrivati in Grecia, e per scoraggiare chiunque fosse intenzionato a intraprendere il viaggio.

Secondo i dati raccolti da Medici Senza Frontiere, i migranti bloccati sulle isole sono ancora più di 12.000. Sulla terraferma, ce ne sono altre migliaia. La rigida burocrazia dei controlli prevista dall’accordo ha costretto i migranti ad attendere negli accampamenti e negli hotspot provvisori che la loro registrazione venisse effettuata, e che la loro destinazione venisse decisa dal protocollo bilaterale. Intanto, i migranti continuano ad arrivare da Afghanistan, Siria, Iraq e Repubblica Democratica del Congo, e le tendopoli si fanno sempre più inabitabili.

Anna Pantelia, MSF | Tendopoli in un uliveto, vicino al campo profughi di Moira, a Lesbo, allestita dopo un’alluvione

Ma nonostante ciò, Syriza è riuscito nell’impresa quasi impossibile: non dare da mangiare agli estremisti di destra. A giovare delle della fuga di voti da sinistra a destra per la crisi migratoria non è stato il partito nazionalista di Alba Dorata, che è fermo alla stessa percentuale ( intorno al 7% ) dal 2015. È stato piuttosto Nuova Democrazia, il principale partito di centrodestra d’opposizione: secondo le stime, Alba Dorata è addirittura destinata a perdere un seggio in Parlamento (passando da 3 a 2), a vantaggio dei partiti di Mītsotakīs e Tsipras.

Rischi e vantaggi dall’accordo con la Macedonia del Nord

Il raggiunto accordo con la regione a nord della penisola ellenica ha avuto un duplice effetto. Da una parte, la risoluzione del conflitto trentennale con l’ormai ufficializzata Macedonia del Nord (ex Fyrom), ha contribuito a costruire un profilo internazionale del premier di tutto rispetto. Non è un caso che le parole di scuse di Juncker siano arrivate proprio nei giorni di quella trattativa. Come ha detto il ministro degli esteri Yorgos Katrougalos,
«l’accordo con la Macedonia del Nord ha permesso a Tsipras di imporsi come un vero statista. Sapeva che gli sarebbe potuto costare dei voti, ma ha capito che la comunità internazionale doveva avere la precedenza sulla politica interna».

E la politica interna, senza dubbio, ha traballato. Nei giorni in cui si decideva sulla ratifica degli accordi di Prespa, le strade di Atene sono state assediate dalle manifestazioni dei nazionalisti di Alba Dorata, che vedevano – come molti altri greci – la concessione del nome “Macedonia” a una regione non greca come un’offesa imperdonabile nei confronti dell’identità nazionale. E Tsipras era stato anche vicino alla sfiducia, dopo che ANEL, la coalizione di destra con cui ha governato per raggiungere la maggioranza, ha abbandonato il Parlamento in segno di protesta.

ANSA | Alexis Tsipras e il primo Ministro dell’ex Fyrom Zoran Zaev che si scattano un selfie per festeggiare l’accordo sul nome della Macedonia del Nord. 02 aprile 2019

Dopo l’accordo con la Macedonia del Nord raggiunto il 25 gennaio scorso, Tsipras e la controparte macedone Zoran Zaev sono stati candidati al premio Nobel per la Pace. Ma non c’è dubbio che il leader di Syriza dovrà trovare la giusta quadratura tra credibilità internazionale e fiducia nazionale. Cosa che lo “statista” di ora non ha dimenticato di fare, scegliendo da una parte di rimanere in una coalizione di sinistra radicale che dà sicurezza ai suoi elettori (Gue/Ngl piuttosto che S&D), e dall’altra di riempire il suo programma elettorale di iniziative da realizzare in Europa, e non fuori.

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