Ospedali vuoti, giovani in fuga: quali medici ci facciamo scappare – L’intervista

Non ci sono abbastanza borse di studio per i neo-laureati in medicina e la formazione è lontana dagli standard qualitativi europei

«È da 10 anni ormai che il numero di contratti di formazione specialistica è inferiore rispetto a quanto richiesto dalla Conferenza Stato-Regioni, che ne chiede circa 8.000». A inquadrare la situazione attuale dei neo-medici italiani è Stefano Guicciardi, presidente dell’associazione FederSpecializzandi. «C’è un differenziale netto di 1000-1500 posti che si sono accumulati ogni anno, almeno dal 2014». Abbiamo intervistato Guicciardi dopo che la città di Bari è stata colorata con i manifesti della Federazione nazionale degli ordini dei medici. «Ogni anno, 1.500 medici vanno a specializzarsi all’estero. E non tornano. Costano all’Italia oltre 225 milioni», dicono dalla federazione, la quale ribadisce che «saranno 14.000 i medici così specializzati che mancheranno all’appello nei prossimi 15 anni», se non cambiano le norme per aumentare il numero di posti nelle scuole di specializzazione.


Guicciardi, qual è la situazione attuale nella categoria?


«Dobbiamo partire dalla constatazione che esiste un grosso deficit di finanziamento: sono anni che non vengono date le risorse necessarie per colmare le richieste delle regioni. Ogni anno si accumula sempre di più numero di candidati laureati in medicina che provano il concorso. Nel 2018 c’erano circa 7.000 contratti di formazione specialistica a fronte di 16.000 domande di ammissione».

Stefano Guicciardi, presidente FederSpecializzandi

È il cosiddetto imbuto formativo, ci spiega cos’è?

«L’imbuto formativo è il differenziale tra il numero di contratti di formazione specialistica a disposizione e il numero di candidati che rimangono nel limbo formativo: o medici neo-abilitati che provano il test per la prima volta o medici che non sono entrati negli anni precedenti. Voglio ribadire una cosa: non stiamo parlando di studenti: gli interessati sono già medici perché subito dopo la laurea c’è il tirocinio di formazione di tre mesi e poi l’esame di Stato».

E chi resta bloccato nell’imbuto cosa fa?

«Non entrando nella specialistica le alternative sono: o lavorare come liberi professionisti per aziende, o cliniche private. Altri fanno sostituzione di guardia medica o sostituzione di medici di medicina generale. Si tratta di condizioni a tempo determinato, precarie. La specializzazione rimane ancora oggi l’obiettivo principale, per entrare nel servizio sanitario nazionale».

O c’è chi va all’estero.

«Sì, da un lato è vero che la fuga dei neo-medici è imputabile all’imbuto formativo. Ma è altrettanto vero che non tutti scappano per questo motivo. Ce ne sono tanti che vanno all’estero perché credono che la formazione in altri Paesi sia migliore rispetto a quella italiana. Ed è un problema noto soprattutto nelle chirurgie: in alcune di esse c’è una mancanza cronica di pratica. E non si tratta solo di entrare in sala operatoria, ma anche della qualità con cui lo si fa. Bisogna avere sistemi di monitoraggio rigorosi, come un libretto personale da seguire in modo preciso che dica, ad esempio, il numero di interventi a cui partecipare per ritenere compiuta la formazione. Uno schedario di tutte le esperienze necessarie a formare uno specialista».

Qualcosa di concreto per arrestare la fuga di giovani medici?

«Vige ancora in alcune scuole italiane una logica perversa per la quale vai in sala, passi le giornate in reparto e impari. Una stupidaggine. Non è il numero di ore che determina la qualità formativa, ma come sei seguito nel tuo percorso. Il problema, salvo poche illuminate realtà, è che la formazione non è adeguata. L’importante non è quanti anni ci metti, ma che tu acquisisca le competenze. 200 interventi di appendice per diventare un chirurgo? Devi farli, e poi esci formato. Se vogliamo fermare la fuga all’estero, dobbiamo garantire una formazione seria, di qualità, è uguale per tutti gli specializzandi. Qual è un riscontro nella realtà? Con il sistema vigente, senza piani formativi seri standard a livello nazionale per specializzazione non siamo in grado di verificare se un chirurgo che si è formato a Bari ha le stesse competenze di un chirurgo di Milano».

Oltre all’aspetto economico, quindi, possiamo parlare di un problema nella formazione?

«Certo. In Inghilterra, e dovremmo prenderli come esempio, esiste un curriculum formativo di 350 pagine per ogni disciplina ed è necessario per specializzarsi. In Italia tutti gli obiettivi formativi delle scuole di specializzazione sono racchiusi nello stesso decreto. E quel decreto dedica due pagine di obiettivi generici per ogni specializzazione. Un’altra questione è che siamo l’unico Paese europeo dove non è possibile passare da una specialistica all’altra. Con un sistema riformato di certificazione delle competenze la cosa invece sarebbe già più fattibile».

Quali soluzioni dovrebbero essere applicate da subito?

«La prima dovrebbe essere quella di aumentare significativamente i contratti di formazione specialistica sfruttando al massimo il potenziale delle attuali reti formative. Così non ci troveremmo in perenne carenza di medici nelle corsie. E bisogna stanziare risorse in forma straordinaria da qui ai prossimi cinque anni almeno. Per adesso abbiamo visto solo palliativi blandi. E ancora, non ci convince per niente la soluzione del decreto Calabria che prevede l’assunzione degli specializzandi dell’ultimo anno. All’atto pratico un modo per scaricare grosse responsabilità su medici che devono ancora ultimare la formazione. Invece ci deve essere sempre un medico strutturato che supervisioni, certifichi e firmi per gli interventi in ospedale. Questa norma invece darà a un medico specializzando una propria autonomia nei reparti pur non avendo ultimato la formazione. Una soluzione tampone al ribasso che mette a rischio la qualità formativa e potenzialmente espone a contenziosi medico-legali».

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